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di non giuocar più, di non ricevere più nessuno, tranne qualche amico, gl'intimi, quelli che non avrebbe assolutamente potuto mandar via. Poichè faceva caldo, la sera veniva infatti poca gente; il cavaliere Fornari, padre Agatino, il professore, il pretore Restivi, il marchese e qualcun altro, tanto da combinare un piccolo tavolino di bazzica, a cinque lire la partita, per ammazzare un'oretta.

      Il cavaliere Fornari, più ingrassato di prima, aveva sempre una sete inestinguibile, e ad ogni ripresa del giuoco tracannava enormi bicchieri d'acqua ghiacciata, soffiando, sudando come un orciuolo, ripigliando le sue eterne lamentazioni:

      — Lasciatemi stare! Ho dovuto mandar via quell'infame del cuoco che mi avvelenava. Non è più possibile trovare chi vi sappia scaldar due fila di vermicelli: o crudi o disfatti, o insipidi o in salamoia!...

      Il dottore veniva al suo solito a portar notizie.

      — Don Camillo Morlieri è in fin di vita.

      — Davvero? Donna Cecilia dovrà esserne molto angustiata!

      — Don Camillo ha una bella fortuna!

      — Aveva — correggeva il marchese. — Sono vigne, e il vino è per terra. Non vi è che lo zolfo, ora. Chi ha zolfare è ricco.

      — Hanno figliuoli? — chiedeva il professore Quartini.

      — Che!... di dove cascate? — gli davano sulla voce. — Non sapete che si sono divisi il domani del matrimonio?

      — Una testa famosa, quella donna!

      La principessa faceva un segno d'assentimento:

      — Non ne parlate!

      — Don Camillo non vuol lasciarle neanche un soldo; non è vero, pretore?

      Il pretore Restivi, sentendosi chiamare, borbottava qualche parola senza senso, e riappoggiava la testa dall'altro lato della poltrona.

      — Non si può avere un momento di quiete!

      I veri tormenti ricominciavano per lui al sopravvenire dell'inverno e, con esso, della solita folla che la principessa, malgrado i suoi giuramenti, tornava ad accogliere. Con tutte le sale illuminate e piene di gente, non era più possibile trovare un posto dove non esser molestati, e il pretore invidiava il cameriere che, sul lucido cassettone dell'anticamera, sonnacchiava tranquillamente. Egli finiva col pigliar sonno in mezzo al frastuono delle conversazioni, che cessava come per incanto in una silenziosa risata ai primi accordi del suo profondo russare.

      Donna Cecilia era spesso della compagnia. Suo marito non aveva voluto morire neanche quella volta, ed ella se ne stava in un angolo a sentire i lamenti dei giuocatori, o le accuse che tutta quella gente, per un verso o per un altro, rivolgeva alla fortuna. Lei non diceva nulla, non si lagnava della sua miseria, arrischiava due soldi al giuoco, e salutava ogni volta con un senso di sodisfazione le sue stanzette dalle vôlte basse come un mezzanino, dalle imposte tarlate, dalle finestre anguste sporgenti sulla corte, esposte alle esalazioni della stalla del proprietario. E prima di andare a letto, ogni sera, apriva il cassetto secreto del suo vecchio armadio a forma di lira, ne traeva il portafogli riposto nell'angolo più profondo e cavava con mano tremante una carta gualcita, dai caratteri ingialliti dal tempo. «Lascio ogni mio avere, tutto incluso e nulla escluso, alla mia cara moglie Cecilia Morlieri Spadafora. — Camillo Morlieri.» E come il rigo seguente portava la data, 16 Gennaio 1845, donna Cecilia faceva il conto che, essendo passati quarant'anni dall'unico giorno del suo matrimonio, non aveva da aspettare ancor molto. Quanto al caso che suo marito avesse a lasciare un altro testamento, lei non ci pensava neppure.

      — Conosco quel che vale! Non ne farà.

       Indice

      Vedendo la sua casa ridotta a mal partito, la principessa deliberò finalmente un giorno di rifarla da cima a fondo.

      — Mi occorrono diecimila lire — disse al suo amministratore.

      — Dove vuole ch'io le pigli? — rispose don Peppino, pensando ancora alla farsa, che gli aveva fruttato appena una chiamata.

      — Come, non sapete trovare diecimila lire?

      — Le trovi lei, se può. Io non mi fido di trovare neanche un soldo. Non sa che gli ultimi denari sono stati presi al quindici? E che Strignoni minaccia un protesto? E che la Falconara è piena d'ipoteche? E che un giorno o l'altro bisognerà prendere una risoluzione?

      Ella restava interdetta, si passava una mano sulla fronte, impressionata, addolorata dalla rivelazione come per una inattesa disgrazia.

      — È la sorte che mi perseguita! Voi, caro don Peppino, dovete aiutarmi; mi metto nelle vostre mani; non mi lasciate vendere la Falconara, se no, io sono rovinata.

      — Se dipendesse da me!...

      Ma don Peppino pensava alla sua rivincita, un gran dramma come Patria! di Sardou: Masuccio, ovvero Dio non paga il sabato, in cinque atti; la selva era già pronta, e l'Imparziale avrebbe pubblicato il testo in appendice....

      Il giorno che la Falconara, l'antico feudo di casa Roccasciano, fu messo all'asta, la principessa si mise a piangere, disperatamente, come una bambina. Provava un bisogno irresistibile di sfogare con qualcuno la piena del suo dolore, e andò a buttarsi nelle braccia di donna Cecilia.

      — Ah, io sono una donna disgraziata!... Cecilia, Cecilia mia, tu sei la mia sola amica... Come faccio, se tu non m'aiuti!...

      Donna Cecilia cercava di calmarla, con belle parole, ma poichè l'altra continuava a singhiozzare, monotonamente, e a chiedere aiuto, lei perdette la pazienza.

      — Infine! L'aiuto è che non devi giuocar più!

      La principessa la guardò, tutta meravigliata, dietro il velo di lacrime che le offuscava la vista.

      — Giuocare io?.. E quando?.. Se ho perfino dimenticato la forma delle carte!

      — Quand'è così, buon divertimento!

      — Non mi credi?... Non mi crede più nessuno!...

      Lei non sapeva che fare, dove dar di capo, nel dissesto che quel grave avvenimento metteva in tutte le sue abitudini. Non giuocando più, davvero, per qualche giorno, cadde ammalata. Intorno al suo letto si succedevano una dopo l'altra tutte le sue conoscenze, a scambiar notizie, a discorrere del più e del meno. La casa restava in balìa dei visitatori; le persone di servizio andavano e venivano per conto di questi e di quello, del cavaliere Fornari che voleva un po' di bicarbonato, del pretore che mandava a casa a cercare il soprabito, della Giordano che faceva chiamare una carrozzella, del duca che aveva fame; intanto che padre Agatino stava alle vedette, aspettando un giuocatore, disperato di aver dovuto smettere giusto in un periodo di vena, che gli mancava poco per mettere assieme la sommetta chiestagli dalla Rosalia.

      — Almeno venisse quella bestia del dottore!

      Ma il dottore non veniva; la principessa, che gli aveva una gran fiducia a tavolino, non voleva sentir parlare di lui quand'era ammalata.

      — Bisogna che la disgrazia mi perseguiti! — borbottava il monaco.

      — Non sapete la disgrazia di quel povero de Fiorio? — venne a dire una sera il Fornari.

      — Che gli è successo?

      — Gli è successo che sua moglie è scappata via, con un barbiere.

      — Ci sarebbe da cavarne un terno — pensò padre Agatino, e si mise a cercare il libro dei numeri. Rivoltando tutte le carte sparse per la casa, guardando in ogni posto, dentro tutte le cassette, non gli riusciva di trovarlo, e poichè gridava e se la pigliava con le persone di servizio, la principessa intervenne:

      — Che cosa cercate?

      — Cerco la cabala.

      Allora

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