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      —Conoscete il Vérod?

      —Non so chi sia.

      —È la persona che denuncia l'assassinio.

      —Non lo conosco.

      Il giudice lasciò allora d'interrogare.

      —La vostra ignoranza è un po' troppo grande. Procureremo di aiutarvi a rammentare. Resterete frattanto a disposizione della giustizia.

      Ella andò via a testa alta, impassibile com'era rimasta durante l'interrogatorio; e il Ferpierre, seguendola con gli occhi, pensava che da quella parte non avrebbe nulla saputo. Egli ne aveva conosciuta più d'una, di queste Slave dall'anima misteriosa, di queste giovani che nel fiore dell'età, tra gli studii più severi, proseguivano con ferreo cuore un tragico ideale, e per esso, per assicurarne il trionfo, non solamente sapevano sfidare e vincere resistenze ed ostacoli, ma gettavano perfino la vita. L'oscurità che avvolgeva l'avvenimento, invece di rischiararsi, addensavasi; ma il giudice aspettava ora impaziente d'affrontarsi con quello che doveva pur esserne il principale attore.

      Quando il principe gli fu condotto dinanzi egli ne considerò attentamente la figura. Era senza dubbio uno dei più belli uomini che avesse mai visti: alto, forte, agile, con le guance incorniciate dalla barba d'un biondo di seta, i capelli castani un poco diradati sulla fronte che pareva pertanto più ampia, la carnagione bianca, anzi pallida e quasi macerata come quella dei discendenti di razze elettissime, gli occhi azzurri e profondi sotto i puri archi delle sopracciglia, il naso aquilino dalle narici nervose, l'abito elegante, il portamento veramente principesco. A vederlo, tutti avrebbero riconosciuto in lui il gran signore e l'uomo galante, nessuno il rivoluzionario. Il suo viso, dapprima scomposto dall'ambascia in presenza del cadavere dell'amica, poi dall'ira all'accusa del Vérod, era adesso atteggiato ad una cupa tristezza.

      —Voi siete il principe Alessio Petrovich Zakunine? Dove siete nato?

      —A Cernigov, nel 1855.

      —Foste mai condannato?

      —Fui condannato alla relegazione in Siberia, per complotto; poi graziato e bandito dalla Russia.

      —Non c'è un'altra pena più grave?

      —Tutte le successive furono confuse in quella capitale per alto tradimento e regicidio.

      —Ora udiste di che vi accusa il Vérod.

      A quelle parole il sangue imporporò la faccia del principe, i suoi occhi tornarono a lampeggiare.

      —Che rispondete?

      Egli si strinse la fronte tra le mani, quasi a reprimere il suo corruccio; poi disse:

      —È vero…

      Confessava? S'incolpava? Riconosceva d'averla egli assassinata? Il giudice quasi dubitò di avere udito male, tanto gli pareva inverisimile che da un momento all'altro quell'uomo si disdicesse; ma il suo dubbio fu di breve durata, perchè Zakunine così precisava il proprio pensiero:

      —È vero… l'ho uccisa io… è morta per me…

      Egli parlava piano, immobile, con voce così sorda che s'udiva appena.

      —È morta per voi e per mano vostra?

      —Che importa? Sono io responsabile…

      —Importa moltissimo, invece, e non ho bisogno, credo, di spiegarvi la differenza!… Voi confessate di averla spinta al suicidio, non d'averla uccisa materialmente? Come, perchè l'avreste spinta al suicidio?

      —Perchè ero indegno di lei. Perchè la disconobbi. Perchè l'offesi.

      —Non l'amavate più?

      —Non l'amavo.

      —E la piangete così?

      C'erano infatti lacrime nella sua voce. Siccome lasciò cadere senza risposta la domanda del giudice, questi riprese:

      —Voleste abbandonarla?

      —L'abbandonai.

      —Perchè tornaste a lei? L'amavate ancora un poco? Vi faceva pietà?

      —Tanta.

      —Come vi amò ella?

      —Come io l'amai, un tempo.

      —Foste felici?

      Gli occhi del principe s'arrossirono.

      —Ella vi amava ancora?

      Egli rispose scrollando la testa, lentamente, disperatamente.

      —Vi diede motivo di gelosia?

      Alla nuova domanda rispose con un gesto dubitoso.

      —Sapevate sì o no che nutriva un nuovo affetto?

      —Lo supposi.

      —Le rimproveraste mai l'amicizia per il Vérod?

      A quel nome il principe s'accigliò e tornò a fremere.

      —No,—rispose con voce sorda.

      —Che cosa lo spingerebbe ad accusarvi?

      —Non so.

      —Il dolore? La gelosia?

      —Forse.

      —Da quanto durava la vostra amicizia con la contessa?

      —Da cinque anni.

      —Era libera quando la conosceste?

      —Sì, libera: vedova.

      —Dove l'incontraste?

      —A Aberdeen, in Iscozia.

      —Quanti anni aveva?

      —Ventinove.

      —Ora o allora?

      —Ora.

      —Non pensaste mai, neppure nei primi tempi, d'unirvi legalmente in matrimonio?

      —Io disconosco questa legge.

      —Ella non sofferse d'una situazione che per i suoi sentimenti cristiani doveva essere immorale e punibile?

      —Ella si era impegnata dinanzi al suo Dio.

      —Vivendo con lei, dormendo sotto lo stesso tetto, conoscendola intimamente, è impossibile che non abbiate visto prepararsi la catastrofe.

      —Non vivevo più con lei. Venivo a trovarla talvolta.

      —Dove è allora il vostro domicilio?

      —A Zurigo.

      —Quando veniste qui?

      —L'altro ieri.

      —Nulla vi fece sospettare il disperato proposito?

      —Soffriva più del consueto.

      —Vi chiese qualche volta di separarvi?

      —Mai.

      —Che cosa pensava delle vostre idee politiche, dei vostri atti?

      —L'idea del riscatto umano l'infiammava, gli atti le repugnavano.

      —Volle impedirvi di commetterli? Tentò di distogliervi dalla vostra attività?

      —Più volte.

      —In che modo?

      —Dicendo che nell'amore, non nell'odio, consiste il rimedio.

      —Voi la mettevate a parte dei vostri secreti politici?

      —Un tempo.

      —Ora non più? Cercò ella qualche volta di sorprenderli?

      —Oh, mai!

      —Che relazioni passano tra voi e Alessandra Natzichev?

      —Pensiamo

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