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d'avventure galanti, di passare d'amore in amore, ripagando col dolore dell'abbandono e del tradimento le sciagurate incapaci di resistere alla sua seduzione. E da questo ribelle sanguinario, da questo indegno Don Giovanni, la contessa d'Arda s'era lasciata sedurre!… Ma aveva ella voluto morire per non assistere alla rovina d'un sogno d'amor fedele, oppure veramente il principe e la nihilista l'avevano uccisa?

      Il Ferpierre, incerto e confuso dinanzi al mistero, discuteva la sera stessa della catastrofe, alla villa, questi ed altri quesiti con il giudice di pace, dopo aver ordinato la traduzione del cadavere alla sala incisoria e il sequestro di tutte le carte che si trovavano ai Cyclamens. Posto pure che l'amore o il capriccio del principe per la contessa fosse finito, bastavano la noia ed il fastidio, od anche i malintesi e il disaccordo a spiegare l'omicidio—se un omicidio era stato commesso? La ragione addotta dall'accusatore e riferita dal giudice di pace, cioè la malvagità dei nihilisti, non aveva valore senza un più particolare ed efficace movente. Distruggere una vita per il solo piacere di distruggerla non era da nihilisti, ma da folli. Bisognava dunque che costoro fossero stati spinti da una passione, da qualche interesse. Forse il male che vedeva ordire al principe, le congiure alle quali lo sapeva mescolato, il sangue che udiva essere sparso per opera di lui, avevano atterrito la contessa: volendo impedire che perseverasse nell'opera tremenda ella poteva aver sorpreso qualche suo secreto, o un secreto non suo; e la rigida disciplina della setta misteriosa aveva forse armato quell'uomo e la sua complice? Questa supposizione alla quale il giudice di pace attribuiva un certo fondamento, pareva al Ferpierre, quantunque non del tutto inammissibile, poco probabile.

      Era più probabile che, se delitto c'era, si trovassero dinanzi a un delitto d'amore? Il principe, dopo aver disamata quella donna, ricominciava ad amarla e l'aveva uccisa per gelosia? E di chi sarebbe stato geloso, se non di quel Vérod che era tanto turbato dalla morte della contessa, e assumeva, non richiesto, la parte d'accusatore e di vindice? O non piuttosto ella stessa aveva commesso il misfatto perchè amava Zakunine ed era gelosa dell'amore che vedeva da lui portato alla Italiana?… Il delitto, chiunque fosse il colpevole, qualunque fosse lo scopo, non aveva potuto tuttavia essere consumato senza che tra l'assassino e la vittima fosse avvenuta una lotta, sia pur breve; ma nella camera mortuaria non se ne trovava vestigio, nè sulla persona della morta. Dalla posizione dell'arma, che stava con l'impugnatura in fuori e la canna rivolta verso il cadavere, i dottori avevano arguito che la contessa, se era suicida, doveva essersi uccisa in piedi; l'arma, cadendole di pugno, aveva compito una rotazione che ne spiegava la giacitura al suolo. Se pure non pareva molto naturale che la disgraziata avesse portato la mano sopra sè stessa stando ritta, contrariamente a ciò che fanno quasi tutti i suicidi, la circostanza che il revolver le apparteneva ed era tenuto da lei nascosto escludeva che un assassino avesse potuto servirsi proprio di quello. Inoltre da quel revolver mal chiuso una cartuccia era venuta fuori nella caduta: ciò si spiegava molto bene da parte d'una donna poco pratica nel maneggio delle armi, d'una suicida le cui mani dovevano per altre ragioni tremare, e non si spiegava da parte d'un assassino.

      Per potersi fermare sopra un'ipotesi bisognava ancora aspettare i risultati dell'autopsia; nel frattempo il Ferpierre, scelta la sala da pranzo della villa come suo gabinetto per l'inchiesta da compiere sulla faccia dei luoghi, ordinò che vi fosse introdotto il Vérod.

      Quando il giovane apparve, il pallore del suo viso, l'ambascia dello sguardo, l'imbarazzo dell'atteggiamento confermarono chiaramente come egli dovesse esser legato alla defunta da un sentimento molto forte e delicato ad una volta. E il giudice, senza esitazione, quantunque tanto tempo fosse passato, tosto riconobbe l'antico studente di lettere. Egli rammentò d'averlo incontrato sovente, durante due anni, al circolo universitario ginevrino, e rammentò pure che fra i loro spiriti non era passato alcun moto di simpatia. Fin da quei giorni lontani l'indole triste ed amara dell'ingegno del Vérod si era rivelata nelle discussioni giovanili: nessuno dei sentimenti ai quali il Ferpierre aveva successivamente obbedito, nè gli entusiasmi poetici nè il dovere severo eran parsi intelligibili a quell'anima chiusa. Rammentava anch'egli l'antico incontro? Aveva chiesto del giudice istruttore sapendo chi fosse? Si sarebbe dato a conoscere?

      —Avete voluto parlarmi,—disse il Ferpierre, che rivolgeva a sè stesso queste domande pure ordinando sulla tavola le carte sequestrate nella camera della morta e del principe;—eccomi a voi. E innanzi tutto il vostro nome, l'età?

      —Roberto Vérod; trentaquattro anni.

      —Voi siete Vérod lo scrittore?

      —Sì.

      —Nato a Ginevra, domiciliato a Parigi?

      —Sì.

      Il giovane o non lo riconosceva o non voleva dirgli che lo riconosceva.

      —Bene. Quali sono le prove che avete da confidarmi?

      Non solamente il Vérod non era più, come prima, sicuro di sè; ma da accusatore pareva a un tratto essersi ridotto ad accusato, talmente si confuse a quell'interrogazione che pur doveva prevedere. Rimasto un poco in silenzio, fatto per dire qualcosa, poi pentito e di nuovo esitante, si avvicinò al giudice tendendogli una mano.

      —Se voi sapeste, signore,—disse con voce malferma e sommessa,—che tumulto di sentimenti ho nel cuore, come ho paura di parlare, come ho bisogno d'affidarmi alla vostra indulgenza, alla vostra discrezione, per dire ciò che ho da dirvi!…

      Quella invocazione fu espressa con tanta delicatezza e sincerità, che il Ferpierre ne fu commosso. Pure non volle ancora provocarlo a farsi riconoscere, aspettando di vedere se egli stesso avrebbe alluso ai loro rapporti d'un tempo. Lasciate le sue carte e stretta la mano che il giovane gli tendeva quasi per afferrarsi a lui, rispose:

      —Sarebbe già il dover mio; ma facciamo di meglio: dimentichiamo piuttosto la nostra condizione rispettiva e confidatevi non al magistrato, all'uomo.

      —Grazie, signore! Io vi ringrazio di queste buone parole… Al magistrato, infatti, non avrei molto da dire, non riuscirei forse a comunicare, mancando di prove reali, la mia morale certezza…

      —Ed all'uomo?

      —All'uomo… all'uomo io domanderò: Chi ha sopportato la vita quando era piena di nerezza, credete voi che possa fuggirla mentre vede finalmente la luce risplendere? Chi ha disperato rassegnatamente, in silenzio, si dorrà, si ribellerà all'imprevista speranza?…

      Il giudice che era stato a udirlo a capo chino, senza guardarlo, non rispose subito.

      Levati gli occhi su lui, interrogò dopo un poco a sua volta:

      —Eravate molto intimo della defunta?

      Il giovane taceva. I suoi occhi si gonfiarono lentamente di lacrime.

      —Non dovrei, no, dire questa cosa…—mormorò con voce rotta.—A nessuno io direi un secreto non mio… non tutto mio… E mi pare, guardate, che Ella se ne dolga, che mi vieti di aggiungere altro.

      —Voi l'amaste?

      —Sì!

      Le sue lacrime s'erano arrestate, il suo sguardo esprimeva ora una gioia orgogliosa, un'altera felicità.

      —Sì, d'un amore che può essere confessato, con alta fronte, dinanzi a chiunque. Perchè lo negherei?

      —Anch'ella vi amò?

      —Sì!… E il mondo non seppe, non saprà mai che cosa fu l'amor nostro. Il mondo è tristo e a breve andare la vita inquina tutte le cose. Ma nulla, non un atto, non una parola, non un pensiero contaminò una sola volta il sentimento del quale vivemmo.

      —Nondimeno il principe ebbe ragione d'esser geloso?

      L'espressione di superba beatitudine che animava il Vérod diè luogo a un'amara contrazione di sdegno.

      —Geloso?… Per esser geloso egli avrebbe dovuto amarla! E se l'avesse amata, fedelmente, puramente, sarei stato amato io stesso?

      Il Ferpierre fu stupito dalla manifestazione di quest'idea. Non rammentava egli bene le crude e ingrate verità delle quali il Vérod sin da giovane era stato predicatore: oppure il pessimista, lo scettico si era convertito?

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