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piccola scrivania disposta contro la finestra, alla luce, e un tavolinetto da lavoro, in un angolo, ne formavano l'addobbo. Sulla scrivania due pile di libri inglesi dalle copertine bianche, una scatola di carta da lettere, una cartella di stoffa antica e un calamaio da viaggio. Altri libri stavano sul tavolino da lavoro e sul comodino accanto al letto. Il commissario di polizia li rimoveva ad uno ad uno, apriva le cassette dei mobili, nessuna delle quali era chiusa, e data un'occhiata agli oggetti d'eleganza muliebre dei quali erano piene, le richiudeva. Nella scrivania vecchie scatolette di cartone contenevano la corrispondenza epistolare della defunta; c'era anche un portafogli pieno di valori italiani e francesi e qualche migliaio di lire in monete d'oro e d'argento. In fondo alla cassetta di destra una scatola a foggia di libro, ricoperta di velluto nero, era chiusa da una minuscola chiave; sul punto che il commissario stava per aprirla il principe fece un passo incontro a lui, dicendo:

      —È il suo libro di memorie… il giornale della sua vita…

      Pareva, dal tono col quale diede quell'indicazione, dall'atteggiamento di tutta la sua persona, che volesse difendere contro gli sguardi indiscreti l'intimo pensiero della sua povera amica. Ma la baronessa di Börne:

      —Qui appunto si potrà trovare qualche cosa!…—esclamò avvicinandosi al giudice, il quale prendeva dalle mani del commissario il libro che questi aveva tratto dalla nera custodia.

      Era anch'esso rilegato di nero e fregiato d'argento, come un libro mortuario; e già quella vista diceva la tristezza e il dolore dei quali la vita dell'infelice doveva essersi abbeverata. Il giudice scorse rapidamente i fogli: la scrittura era piuttosto grande e magra, poco inchiostrata, elegante e d'una nitidezza mirabile. Il libro era forse pieno per tre quarti; e l'indagatore soffermavasi con maggior attenzione sulle ultime pagine; ma dopo aver letto scrollò il capo:

      —Non s'intende,—disse;—non è una confessione…

      Il commissario proseguiva frattanto le ricerche in uno stanzino attiguo, lo spogliatoio, dove un altro armadio, il lavabo ed i bauli tenevano tutto il luogo disponibile. Non vi trovò nessuna carta. Rientrato nella camera, la traversò dirigendosi alla sala: qui le ricerche furono ancora più brevi ed inutili; perchè, oltre i divani e le poltrone, solo una tavola piena di minuti ninnoli e il pianoforte sul quale stava spiegato un fascicolo del Pessard la mobigliavano. Già il commissario tornava sui proprii passi, quando una voce di pianto ed esclamazioni d'ambascia lo fecero rivoltare: i gendarmi, obbedienti agli ordini ricevuti, vietavano l'entrata ad una donna vestita di scuro che portava sul capo il velo nero delle popolane lombarde.

      —Ah! Signore! Ah! Signore!…—esclamava costei, a mani giunte, col magro viso solcato da lacrime ardenti.—Vederla!… Ancora una volta vederla!… La padrona mia… la mia buona padrona!… Ah, Signore, vederla!…

      Era la Giulia che tornava in quel punto: piccola e magra, di dubbia età, ella appariva disfatta dall'ambascia.

      —Lasciate che passi,—ordinò il magistrato cui la baronessa spiegò che, servendo la morta da lunghissimi anni, questa donna aveva goduto di tutta la sua confidenza.

      E come, entrata barcollante e lacrimosa, a mani giunte, ella si avanzò verso la salma, il brivido nervoso riprese a scuotere la persona del principe, nel suo viso tornò a leggersi l'atterrito smarrimento, il pauroso dolore di poco prima, quasi la vista d'una persona cara alla morta, quasi lo strazio di questa persona rincrudisse il tormento suo. Egli non guardava più il cadavere ma la piangente, e pareva che si protendesse verso di lei, che volesse accostarsele, come per unire il proprio dolore a quello di lei, per parlarle della morta, per udirla parlar della morta. Tutti, gli uomini della giustizia, i dottori, la stessa baronessa erano impressionati dall'ansiosa attitudine di quel dolente; solo la straniera restava rigidamente atteggiata, impassibile e quasi senza sguardo.

      —Come disse ha fatto!… Lo disse e l'ha fatto!…—gemeva la donna dinanzi al cadavere.—Voleva la morte… la chiamava… Ah, poveretta!… Ah, Signore!… E mi mandò via, mi mandò… per essere libera… perchè io non le leggessi in viso!… Ah, se le fossi stata vicina!… Quante volte, poveretta; quante volte pregò Dio di farla morire!… E s'è uccisa!…—ripetè con voce più rotta, quasi avesse potuto fino a quel momento dubitare e sperare, ma ricevesse a un tratto l'irrecusabile conferma della sciagura.—S'è uccisa!… È morta!… Signore! Signore!…

      La baronessa, passandosi una mano sugli occhi e sospirando, le si fece dappresso.

      —Basta, ora, povera donna!… Bisogna pur troppo farsene una ragione!… Siate calma! Basta!… Dite piuttosto a questi signori, dite alla giustizia: dove vi mandò, perchè vi mandò?

      —In città, a pagar delle note… a comperar delle cose… Io non so più… Pareva che volesse venire con me, quando si levò… poi mutò opinione, mi mandò via…

      —Vi diede qualche carta? Sapete se scrisse qualche lettera, iersera o stamani?

      —Non ieri, stamani. Stamani scrisse una lettera.

      —A chi era diretta?

      —A suor Anna.

      —Chi è suor Anna?—domandò il magistrato, che aveva lasciato pazientemente interrogare la verbosa signora.

      —Suor Anna Brighton, l'antica sua maestra inglese.

      —Dove sta?

      —Non so. C'era il nome sulla busta, un nome straniero.

      —Non sapete neppur voi l'indirizzo?—soggiunse il giudice rivolto al principe Alessio.

      —Lo ignoro; però…

      La sua ansia pareva sedarsi, egli stava per dire qualche cosa, quando s'udirono ancora dal fondo della sala gli agenti della polizia contrastare il passo a qualcuno. Ma questa volta l'ignota persona non si lagnava, non piangeva; con voce vibrante, concitata e quasi imperiosa diceva:

      —Lasciatemi passare!… Ho bisogno d'entrare, vi dico!…

      Mentre il commissario andava a vedere chi fosse, il Bérard e la baronessa di Börne s'avvicinarono all'uscio.

      —Vérod!—esclamò la baronessa, scorgendo un giovane alto, forte, con i capelli neri e i baffi biondi, il quale, tentato di forzar la consegna, s'inoltrò quando a un cenno del loro superiore le guardie si trassero da parte. Ma dopo aver ottenuto l'intento, mossi rapidamente i primi passi, il nuovo venuto parve a un tratto incerto e titubante; la concitazione che gli accendeva il viso diè luogo a una confusione angosciosa: sulla soglia della camera, scorto il cadavere, portò una mano al cuore e s'addossò allo stipite dell'uscio, sbiancato in viso, sul punto di stramazzare.

      —La nostra povera amica!—esclamò ancora la baronessa, stendendogli la destra, quasi a sorreggerlo, a infondergli coraggio.—Chi l'avrebbe detto!… Non par di sognare?… Povera, povera amica!… Uccidersi, così…

      Allora il giovane, riscotendosi, si avanzò ancora d'un passo e disse con voce acre:

      —No.

      Un movimento d'inquieto stupore passò tra gli astanti.

      —Voi dite?—domandò il giudice avvicinandosi al Vérod e figgendogli gli occhi negli occhi.

      —Dico che questa donna non si è uccisa. Dico che è stata assassinata.

      La voce risonava stranamente, come in un luogo vuoto, così gelato silenzio regnava tutt'intorno, tanto sospeso e trepidante era l'animo d'ognuno. Il principe Alessio, diritto, immobile, a testa alta, guardava anch'egli fiso l'imprevisto accusatore.

      —Come potete asserirlo?—domandò ancora il giudice.

      —Lo so.

      —Quali prove ne avete?

      —Nessuna prova materiale; tutte le morali certezze.

      —Chi l'avrebbe uccisa?

      Il giovane stese il braccio appuntando l'indice contro il principe e la straniera, e disse:

      —Costoro.

      Ora

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