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stretto nelle sue tanaglie. Io solo salgo alla tribuna, rilevo la dignità avvilita dei Deputati, ed esclamo: «non potere vedere, che essi sieno stati cacciati così a vergogna. — Qualunque sia la opinione che ci divide fra noi in questa sala, noi siamo tutti fermi e uniti a tutelare con l'ultima stilla del nostro sangue la patria minacciata dai nemici interni ed esterni. Io pertanto mentre rimprovero al Popolo le sue esorbitanze, non posso astenermi di rimproverare anche i Deputati che hanno disertato i loro scanni[180]..... Figli di una stessa famiglia, pensiamo a prendere provvedimenti valevoli e salutari nel supremo pericolo dell'amatissima patria.»

      Tutto questo, assai più che con le parole, col gesto concitato, e col guardo torvo, era diretto contro il Niccolini, che si smarriva, rimettendo alquanto della consueta petulanza, e, mal per rabbia sapendo quello che si facesse, si mise a sedere su la pedana del banco ministeriale. Ora, Dio eterno, si può egli supporre, che un uomo il quale avesse eccitato queste enormezze in segreto, ardisse rinfacciarle così aspramente in palese? E si può egli credere, che o Niccolini, o tale altro della Congiura si fosse tolto in pace vituperio siffatto? La mia sfrontatezza avrebbe toccato il termine della insania; la pazienza altrui quello della stupidità.

      Intanto Niccolini, ripreso animo, a cagione degl'imperiosi messaggi che il Popolo mandava per invitarmi (e voleva dire ordinarmi) a scendere in piazza, per le apprensioni del Vice-Presidente, pei clamori delle tribune, ed anche per certa imprudente proposta mossa da un Deputato rivolto a me, che tenevo sempre la tribuna, grida: «chiedere la parola in nome del Popolo; avere il Popolo riassunto i suoi diritti, dopo che si era radunato in piazza, ed aveva dichiarato decaduto il Potere; avere di più nominato tre persone per reggere la Toscana, e con Decreto sciolti gli altri poteri.» Quindi cruccioso conclude: — «O voi accettate, e non esiste altro Potere che il vostro conferitovi dal Popolo; o non accettate, e il Popolo penserà a quello che deve fare....[181]»

      La turba applaudiva frenetica: difficilmente può significarsi per parole l'amarezza con la quale il Niccolini urlava: «Il Popolo penserà a quello che deve fare.» Per coteste minaccie gli animi degli astanti sbigottivano.

      Ed a ragione sbigottivano; perchè, sapete voi che cosa voleva dire «Il Popolo farà da sè?» Voleva dire: il Principe decaduto, le sue case saccheggiate, i servitori manomessi. Voleva dire: chiese espilate, cittadini multati, pubbliche casse vuotate. Voleva dire: leggi dei sospetti, tribunali rivoluzionarii, sentenze scritte col fiele della vendetta e col sangue del furore. Voleva dire: antichi impiegati condotti alla miseria (forse a peggiori destini), e famiglie disperse. Voleva dire tutto quello che una plebe arrabbiata sa fare quando la sferzano le furie della necessità, della cupidigia, e della paura, ed uomini perversi la inebbriano di odio. — Se questa poi sia esagerazione o verità, vedremo tra poco.

      Io avevo impegnato un duello col Niccolini, che pure l'Accusa designa audacissimo, ed è vero; pur troppo mi accôrsi che mi poteva tornare fatale; nonostante sperando, che di valido aiuto i miei colleghi mi sovvenissero, me gli rivolgo incontra da capo, ingegnandomi blandire il Popolo, e separarlo per questa via dal suo Condottiere; e così lo interpello: «Perchè pretende egli esclusa dallo aderire alle deliberazioni la parte del Popolo elettissima, che siede in questa sala? Le Provincie non devono essere rappresentate? Non importare ch'elle stieno unite? Se mai le persone indicate accettassero, perchè vorrebbe togliere loro il voto, e l'adozione dei colleghi, per conforto a procedere in una via da ora in poi piena di supremi pericoli, e forse di morte sicura?[182]»

      Questo era impedire la dissoluzione del Paese, e dirò quasi un porgere una cima di canapo alla Camera affinchè l'afferrasse, e, diventata padrona della occasione, ardire pari agli eventi mostrasse. Alcuni più ragionevoli del Popolo si lasciano persuadere, e favellano miti parole. Allo improvviso si ascolta nuovo Popolo accorrente con immenso fragore: la sala intronata, pareva che sobbissasse: per questa volta mi sentii cadere il coraggio: temei della mia, ma più assai della vita altrui. In quel momento mi appiglio (ogni altra difesa mancando) alla parte del Popolo, che, prima venuta, si era mostrata proclive alla persuasione, e dirò quasi mansuefatta; la invoco a supremo riparo, e supplicando grido: «Il Popolo guardi il Popolo: non venga introdotta persona.[183]»

      Ma il Popolo prorompe furibondo, ed intima con altissimi urli che scendiamo in piazza. Allora fu, che sempre combattendo, e riparando alle parole promettitrici del Vice-Presidente, in atto ortatorio dissi: «Prego ad ascoltare la lettura del Rapporto, e lasciare che l'Assemblea sul medesimo deliberi.»

      Niccolini inquieto, avvertendo che il Popolo alla lettura di cotesto Rapporto si calmava, teme la seconda disfatta, onde mi taglia le parole in bocca, e proclama lo scioglimento delle Camere.

      Ora qui, da chiunque goda del bene dello intelletto, o per istudio infelice di parte non chiuda gli orecchi alla coscienza, o per turpe consiglio, o per altra qualunque più malnata passione non rinneghi il vero, sarà agevolmente concesso, che se Niccolini ed io andavamo d'accordo non ci potevamo intendere di peggio, conciossiachè Niccolini pretendesse la Camera sciolta; io mi sforzassi a tenerla unita: Niccolini il Principe decaduto proclamasse; io cotesto plebiscito deludessi: Niccolini sovrani i Decreti del Popolo in piazza a sostenere si ostinasse; io a dire che nessuno, tranne la Camera, avesse diritto di proclamare leggi persistessi: per lui decadenza del Principe, e reggimento mutato fossero fatti compíti, e non vi fosse più luogo a deliberare: per me tutto da farsi, e l'Assemblea a risolvere liberissima: il Popolo di scendere in piazza m'imponesse; io dichiarassi non mi volere muovere dall'Assemblea.

      Credo che non mi rifiuteranno fede gli onesti, quando dico che, ordinariamente di salute mal fermo, adesso per la veglia durata e le angoscie dell'animo, io mi sentissi prossimo a mancare; pure non volli rimanermi da profferire parole le quali indicassero come per me veruna cosa fosse ancora decisa, e tutto rimanesse a deliberare, vituperassero i tristi, minacciassero gli audaci.

      «Da questo momento i Ministri cessano essere Ministri di Leopoldo II, e divengono semplici cittadini. L'Assemblea e il Popolo deliberino il resto. Frattanto abbiamo spedito in tutte le parti della Toscana; abbiamo preso provvedimenti necessarii affinchè un Governo immediato, pronto e vigoroso, possa erigersi per reprimere i disordini che potessero insorgere così per le fazioni infami dei retrogradi, come per le fazioni non meno infami degli anarchici.[184]»

      Queste ultime parole erano per quattro quinti dirette alle persone che mi stavano davanti. Errano le carte dell'Accusa (e vorrei credere per inavvertenza) quando affermano che Niccolini intimasse alla Camera di aderire alla nomina del Popolo, però che egli mai disse questo. Il suo concetto era troppo bene disegnato diversamente: egli pretendeva decaduto il Principe a cagione della sua partenza, il Popolo padrone di disporre di sè, ed in fatti disporre sciogliendo tutti i poteri costituiti, e nominando un Governo Provvisorio. Niccolini, latore degli ordini popolari, non poteva fare contro al mandato contenuto nel Decreto del Popolo, che l'Accusa male finge ignorare.

      Quando per le mie parole Niccolini tacque, incominciò veramente la discussione. La stessa Accusa dichiara, ed io mi maraviglio come questa confessione le sia caduta dalla bocca, che io solo riuscii a far tacere il Niccolini (§ 77).

      Io ho sostenuto, che i Deputati potevano uscire, e usciti non tornare, perchè invero molti uscirono, e parecchi non tornarono, e perchè Niccolini latore degli ordini popolari intimava sciolte le Camere. Dicono che vi furono alcune minaccie di morte, e vi saranno state, ma scarse, e rade così che io non le udii; comunque sia ciò, non toglie efficacia alla mia osservazione, confermata dal fatto dei molti Deputati usciti incolumi dalla sala, e dallo essere andati immuni da offesa tutti coloro cui non piacque tornare. Il Decreto del 10 giugno parlava sempre dell'assenza del Presidente, taceva quella dei molti Deputati. Se il Presidente tornava, lo faceva coartato dalla minaccia della guerra civile, ed anche qui dei Deputati persistenti a rimanere lontani non si profferiva parola, e ciò a bella posta, perchè non si voleva credere che la minaccia della guerra civile non fu coartazione, ma presagio al quale rimasero indifferenti tutti coloro che vollero, e che i pertinaci a stare fuora non corsero danno o pericolo di sorta alcuna.

      Invano si nega; se violenza avvenne, e' fu per cacciar via i Deputati, non già per ritenerli.

      Dopo che, ridotto al silenzio il Niccolini, s'incominciò la discussione, Cosimo Vanni Presidente con molto grave sentenza impegnava il nazionale orgoglio, affinchè la turba raccolta tacesse, e lasciasse

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