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al Popolo, lo ammonisco: «Terminerò col darti uno avvertimento, non inopportuno ai tempi che corrono. Le cose di Francia non t'illudano; gli Stati non vivono d'imitazione. Ogni Popolo ha le sue età. Non bene riscosso dal lungo letargo, male imprenderesti a correre. Sta queto. Fortificati. Sviluppa il tuo ingegno con lo studio del reggimento degli Stati. La forma costituzionale presenta campo abbastanza per questi...» E continuo col concetto, e quasi con le parole che stampai nello aprile, e che si leggono qui oltre.

      Nello aprile del 1848, dopo cotesta prigionia essendo già pubblicato lo Statuto, dichiarando i principii di varii reggimenti, e cercando quello che, giusta la opinione mia, meglio si confacesse al Paese scriveva:

      Corriere livornese, 6 aprile 1848: «Dopo lui (Luigi Filippo), sembrò il Governo costituzionale, menzogna: ma si confortino i diffidenti: il vizio fu dell'uomo, non già dell'istituto; e ricercando per le Storie, non mancano esempj di Principi e di Popoli, osservatori religiosi degli scambievoli doveri. — La lode di Agesilao, dice Senofonte, non può andare separata da quella della patria, conciossiachè Lacedemone fedele ai suoi Re, non imprese mai a spogliarli della loro potestà, e i Re non desiderarono mai poteri più estesi di quelli che dalle leggi venissero loro consentiti.»

      Nel No dell'8 aprile, trattando della Repubblica, termino: «Ora sono eglino in noi animo e costume capaci a conseguire la Repubblica, e, conseguita, a mantenerla? Noi ne dubitiamo grandemente, ed esporremo le cagioni del dubbio.» E nei N. 13 e 19 di aprile espongo i motivi, pei quali non reputo la Repubblica governo adattato al nostro Paese.

      Nel Nº del 15 aprile, dico: «La monarchia costituzionale offrirci palestra bastevole a istruirci nella scienza dei Governi.»

      Capitale poi apparisce la dichiarazione diretta agli elettori, stampata nel Nº 2 maggio del medesimo Giornale: «Qualunque sieno i pensieri individuali, verun cittadino può imporre a forza la sua opinione al Popolo, arbitro supremo del modo col quale intende reggersi. La tirannide non porta sempre corona di oro; qualche volta la vidi col berretto frigio: la sfidai sotto il primo sembiante; saprò combatterla, alla occasione, sotto il secondo. Per me, il migliore Stato è il meglio governato secondo i desiderii, i bisogni, e le condizioni attuali del Popolo. Però, ove il Popolo si accomodi al governo costituzionale, e prosegua di affetto il suo Principe benemerente, a me non repugna, mandatario fedele, sostenere la Monarchia, purchè Costituzionale davvero.»

      Eletto Deputato, fra le infinite allegazioni basti una sola, quella raccolta dalla medesima Istruzione, allegata dalla stessa Accusa, la quale prescelgo per la data, che appartiene al tempo in cui tornava da avere composto la scompigliata Livorno, e per la dimostrazione dei principii politici, che me legavano allora allo scrivente; ed è la lettera direttami nell'11 ottobre dal Deputato Pigli. «Assisti con attenzione al gran dramma; e quando sarai chiamato, sii presente. Noi vogliamo la Costituzione sincera, e la strada di ogni civile progresso, sgombra da ogni impaccio di vile egoismo. — Se occorre, scrivimi. — Io ti assicuro di tutto ciò che uomo virtuoso può desiderare, e non già per me te ne faccio fede, ma pel Paese mio.»

      Vedasi in quella la non sospetta manifestazione degl'intimi sensi di tale, che mi sedeva al fianco nella Camera dei Deputati, e militava allora con me sotto la medesima bandiera, e si comprenda se io fossi lealmente, interamente partigiano della Monarchia Costituzionale. Tale era il mio domma politico; io vi ho persistito sempre, e fu nella fiducia che anche Carlo Pigli vi persistesse che lo proposi al Governo di Livorno,

      Assunto al Ministero, tanto più mi approfondai in quello, in quanto che per copia maggiore di fatti venni confermato nella osservazione, che la massima parte dei Toscani fosse alla Monarchia Costituzionale attaccatissima. Invero, primo mio studio come Ministro fu provocare da tutte le Autorità governative, e da tutti i Gonfalonieri del Granducato, rapporti quanto meglio potessero esatti, intorno lo stato politico, economico e morale delle Provincie e Città che reggevano. Commisi, tutti questi rapporti riducessero in quadro sinottico (come proverò in seguito), e dal libro che mostrai a S. A., e rimasto forse allo Ufficio del Ministero, venne a risultare in modo esatto la verità della osservazione intorno ai desiderii del Popolo toscano. Io per me ho sempre inteso, che per governare quanto meglio si può, bisogna porre accuratamente studio a ricercare i fatti. I Governanti, che ai fatti non guardano, o non li curano, o li dispettano, si rassomigliano ai fanciulli, che corrono a nascondere il viso nel cantone, credendo non essere veduti. — Però questo mio sistema mi ha fruttato taccia d'ignorante e di gretto, dal Partito repubblicano.[161] Io posso abbandonare intera alla censura altrui la mia mente, mi salvino il cuore; ma davvero con idee preconcepite, e discordi dal voto universale, io non comprendo a che cosa si riesca, tranne a sobbissare i paesi per soverchia presunzione di sè.

      Però nella Circolare del 12 novembre 1848, indirizzata ai Prefetti, dopo avere parlato del periodo procelloso che percorrevamo, dichiaro: «I principii monarchico e democratico possono vivere in pace fra loro, a patto però, che il primo si mantenga leale, il secondo proceda temperato. I re durarono nella Repubblica di Sparta, e progenie inclita di Ercole eroe furono Codro, Agide e Agesilao, onore della umanità. Se il presente Ministero fosse andato persuaso, che Principe e Popolo camminino contrarii disperatamente, non sarebbe salito ai Consigli del Capo Supremo dello Stato

       Più oltre: «Alle persone senza consiglio stemperate, dite che noi siamo antichi amici della Libertà, che la nostra fede non può tornare sospetta, che ci ascoltino come fratelli, e sappiano essere più onorato del desiderare nuove libertà, mostrarci capaci di adoperare dirittamente quelle che abbiamo ricevuto

      E nella seduta della Camera dei Deputati, come di sopra ho avvertito, bandii solennemente non esser suonata l'ora della Repubblica in Italia; e la generosità del Principe e i suoi meriti presso il Popolo, e l'obbligo di questo a mostrarsi grato, per lo insigne beneficio ricevuto.[162]

      Al quale cumulo di fatti vogliansi di grazia aggiungere gli altri riferiti in altra parte di questa Memoria, e si vedrà come io mi fossi pronunziato apertamente contrario alla Repubblica, per calcolo rigoroso di giudizio, e per probità politica; e come esatti manifestassi i principii, guida costante del mio operato, secondo che sarà chiarito in appresso.

      Io non posso concludere questa parte del mio ragionamento senza difendermi da un'accusa... ma per questa volta è repubblicana! — Comprendo benissimo, che difenderci di dietro e davanti ella è impossibile cosa; nonostante non consente l'animo, quantunque presago della difesa disperata, abbassare vinto le mani. Come nell'Appendice sarà manifesto, uno scrittore di setta repubblicana con molta querimonia mi appunta che nei destini della Italia io non avessi fede, nè nella virtù dello entusiasmo; freddo calcolatore essere io, e nel respingere il concetto repubblicano mi consigliassi con le dottrine del Machiavello e del Guicciardino. Aborrente, come ogni onesto dev'essere, a giudicare le intenzioni altrui, io raccomando al signor Rusconi leggere e meditare queste parole di Ugo Foscolo, che per certo non fu cuore freddo, nè tepido amatore della Patria e di quanto potesse ridondare in augumento di lei, ond'egli giudichi se in parte potesse farne ragione pei suoi amici, o per sè:

      «Quando il Popolo torna a precipitare nella corruzione, allora ad alcuni bennati le teorie sono stimolo a nobile vita, a sublimi speculazioni, a generosissime imprese; ma alla universalità de' cittadini necessitano rimedj desunti dalla esperienza, e consentiti dalla natura dell'uomo. Catone fu d'onore a sè; ma di che pro alla Repubblica? La sua virtù pareva ostentazione, e fu alle volte derisa; però infruttuosa: non doveva piegare i costumi, bensì lo ingegno, alla condizione de' tempi; e se non fosse temerità giudicare di tanto uomo, direi ch'egli era più filosofo che cittadino romano; perchè s'ei non avesse inteso a procurare alla Patria il bene assoluto, avrebbe per avventura, col valersi dello stato d'allora, potuto procurarle quel più di bene che si poteva.»[163]

      Che se il sig. Rusconi e gli amici suoi mi vorranno essere benigni di proseguire nella lettura del libro, che cotesto austero intelletto scriveva proprio per noi, troveranno, spero, argomento di spiegare la mia mente, senza attribuirmi le brutte intenzioni che lo infelicissimo non dirò amore, bensì furore di parte, gli mette in pensiero.

      «Ma io adorando la sapienza e la onnipotenza di Dio, e senza arrogarmi di giudicarla, o di bilanciare il meglio ed il peggio di quanto poteva fare o non fare, nè interpretare

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