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affranta si accasci. Che qualcheduno la preceda con la torcia accesa a schiarirle il cammino, bene sta; ma non le vada tanto innanzi, che, fissa in quel lume lontanissimo, non veda i pericoli che le si parano sotto i piedi.

      Essendo pertanto avvenuto, che uomini, i quali speculativamente si mostrarono parziali a forme di governo latissime, fossero assunti al Potere, nè si trovassero abilitati a ridurre in pratica le teorie manifestate, si ebbero, senz'altro, rimprovero di mutata fede, e di peggio. Accusa, a mio parere, ingiusta; imperciocchè a comporre un trattato e a scrivere un libro basti poca carta e inchiostro e il proprio cervello, ma per condurre un Popolo sia forza consultare i suoi desiderii, i suoi bisogni e la sua potenza. Nè si deve, senza le solite stemperatezze dei Partiti, biasimare chi, vedendo che tutto non si può nè ad un tratto, e forse alcune cose mai, con lealtà di cuore e fede intemerata si mette a raccogliere le possibili. Così non si biasimava Platone, se, avendo scritto il Trattato della Repubblica, si conduceva a Siracusa per mansuefare lo efferato animo del tiranno Dionigi; nè Tommaso Moro, il quale, comecchè dettasse il Libro della Utopia, consentiva a tenere ufficio di Gran-Cancelliere d'Inghilterra sotto Enrico VIII; nè il Moro perciò vendeva la sua coscienza a cotesto re, e lo mostrò con la morte. — E Cocceio Nerva compiacque piuttosto al suo fiero talento, che al bene della umanità, quando, pria che vivere sotto Tiberio, sostenne morire, conciossiachè è da credersi che con l'autorità, la quale esercitava grandissima, e l'amicizia che l'Imperatore gli professava, avrebbe potuto, per avventura, temperare la truce indole di quello.

      Migliaia e migliaia di persone, tinte in chermisi fino alla radice dei capelli, presero a impallidire da un lato dopo la battaglia di Novara, e di tanto progredirono, che, svanito anche il verde, dopo il 12 aprile si trovarono perfettamente partiti di rosso e di bianco. Cotesti esempj non fanno per me: prima che la dignità umana abbia a ricevere offesa per mia viltà, prego Dio a ritirarmi la vita. Io non aspettai questo infortunio a chiarire come pensassi della Repubblica, e mi mostrai avverso alla medesima prima dello Statuto, dopo lo Statuto, semplice Deputato, e Deputato e Ministro, libero, e prigioniero. Pei tempi che corrono, o non pare ella all'Accusa siffatta costanza mostruosa quasi?

      Nel 19 novembre 1847 ragionando per lettera col marchese Gino Capponi (che in quel tempo erami amico, e potrebbe essermi ancora, se fosse rimasto sempre solo coll'anima sua) intorno ai miei concetti politici, gli scriveva in questa sentenza: «Io vedo, e vedo certo, disordine e impossibilità di scopo a cui tendiamo, per difetto di razionale organismo. Per me la questione è semplice: il Governo cerca forza; hanno a dargliela i cittadini? Se il Governo si mantiene assoluto, no; — se modifica il suo principio convenientemente, . Io, perdurante la mia vita, ho combattuto il primo, e certo non posso nè devo sovvenire che al secondo. Nonostante, se questo mio fosse errore, se dovesse contristare i migliori e più sicuri amici miei, io non rinunzierò alla mia opinione, ma la chiuderò nel mio seno, e romperò la penna, — pregando Dio che voglia abbreviare il termine prefisso alla mia vita.»[151]

      Nel decembre del 1847, scrivendo certe mie Memorie, m'indirizzava a Giuseppe Mazzini con queste parole: «Molta terra e molto mare ci dividono adesso: corrono anni ben lunghi che noi non ci mandiamo neppure un saluto: le opinioni diverse ci separarono. Tu inebriato di amore, e confidando troppo nella umana natura, nella casta ed ardente fantasia immaginavi non possibili destini ai tuoi fratelli, e li volevi ad un tratto felici e vendicati dal servaggio che è offesa a Dio ed onta alla dignità dell'uomo. Io, più provato alla dolorosa esperienza, quel tuo soverchio volere non consentiva; e pretendere fuori di misura, mi pareva tornasse il medesimo che non profittar nulla. Ed in questo ancora differivamo, che il bene divisavi imporre ai popoli repugnanti e ignoranti; io poi, forse di soverchio studioso dell'altrui libera volontà, ricusava costringerla anche a quello che per avventura era ottimo.»[152] E favellando, a pagine 25, delle varie tirannidi che contristano la terra, dichiarava: «Ho provato nella vita occorrere di molte generazioni di tirannidi; nè sempre cingono corona di oro, ma bene spesso berretto frigio; nè sempre muovono dai potenti, ma bene spesso dalla miseria importuna, dalla querula presunzione e dalla cieca ignoranza

      Così nei tempi in cui potevasi non solo impunemente confessare, ma anzi tôrre argomento di popolarità dalla confessione di avere promosso o partecipato a sètte politiche, io volli manifestare come avessi mai sempre rifuggito da quelle, e ne dissi il perchè; chiarii dividermi da Mazzini antica e profonda diversità di opinione; lamentai la sua corrispondenza da moltissimi anni interrotta; la tirannide del berretto rosso stimatizzai. Nel medesimo anno pubblicai il libro Al Principe e al Popolo, di cui ho favellato altrove.

      Della libertà così vi ragiono: «Della libertà che per esercitarsi offende la Legge, non è da godere: la libertà non iscambiamo con la licenza: quella è vita, questa è morte dei Popoli. — «Di più ragioni io conosco libertà, diceva il Parini: libertà vanitosa, libertà soverchiatrice, libertà ciarliera, con tante altre specie ch'è più onesto tacere: amo la libertà anche io, ma non la libertà fescennina.» — Ed io consento con quel santissimo petto.»[153]

      Avvertiva i pericoli dello essere andati prima troppo tardi, e dello andare adesso troppo presto: «Sventura grande nelle società umane è quella, che il tempo non procede mai equabilmente; prima noi camminavamo un'ora dentro un anno: adesso in un'ora precipitiamo un secolo: però, quello che parve ottimo ieri, apparisce disadatto oggi, forse pessimo domani: una grandissima vertigine ci offusca tutti, ed io non maraviglio se alcuno perde la bussola.»[154]

      Ma soverchio sarebbe allegare citazioni; solo io prego i lettori esaminare come a pagine 42 prevedessi i moti toscani, ne indicassi le cause, e secondo il mio corto intelletto ne proponessi i rimedj, fra i quali mi pareva efficace quello che il Governo precorresse le voglie del Popolo discretissime allora, riprendesse forza ed autorità, inspirasse fiducia co' fatti, la meritasse, e concedendo anche più di quello che portavano i desiderii presenti, togliesse motivo al nascere dei futuri.[155] Scendendo alle specialità, persuadevo una Rappresentanza di uomini eletti e pagati dalle città, i quali cooperassero alla formazione della Legge.[156] E la forma della consigliata Rappresentanza desiderava non fosse inglese, o francese, o spagnuola, ma italiana, confacente alla indole, ai costumi e alle condizioni nostre, ed in modo che alcuno dei Potentati di Europa potesse con la forza sì, ma non col diritto perseguitare.[157] Non intendevo pertanto che al Principe s'imponessero leggi intorno alla forma della Rappresentanza, pago di quello che suggeriva egregiamente il signor marchese Daniele Zappi in certo suo libro intorno alle condizioni della Toscana: «Se non che tanto ci avanzammo nella carriera politica, che non più risponderebbe alla presente situazione delle cose lo appello fatto ai provveditori delle Camere, e a pochi altri: in quella vece si rende ora indispensabile, che dalle provincie toscane, e in modo alquanto più largo della Romana Deputazione, sieno convocati probi e savii cittadini, che a riformare le Comuni si adoperino col Governo, e che innanzi di disciogliersi sappiano ottenere dalla clemenza sovrana una forma di nazionale Deputazione, come istituzione dello Stato, la quale concorra a coadiuvare il Governo, e valga a sostenere gl'interessi del Popolo, vera ed unica base di nuovo ordinamento politico dello Stato.»

      Questa Rappresentanza, come al prelodato Marchese, sembrava anco a me capace di salvare il Ministero dal popolare commovimento, ponendosi fra Governo e Popolo: essa raccoglierebbe le speculazioni degli scrittori politici, e dopo averle ponderate le presenterebbe al Governo; riterrebbe il Popolo da seguitare dottrine diverse, e varii capi, potendo riposare nei suoi Deputati; e finalmente, tra gli eccellentissimi, ottimo il vantaggio che partorirebbe questa istituzione: «guarentendo stabilmente il Popolo dagli abusi del potere; non si potendo godere il bene della giustizia, se assicurata non sia per lo avvenire: e come gli uomini, per buoni che sieno, mutabili e mortali sono, così la continuata e salda guarentigia della opera governativa non può venire dalle persone, ma deve essenzialmente risiedere nelle instituzioni dello Stato.»[158]

      Parole poi piene di reverenza adoperavo verso il Principe, e di preghiera,[159] e finalmente concludevo col dire, che: «principio unico e fondamento vero di riforma, consisteva nella rappresentanza popolare cooperatrice alla formazione della legge.»[160]

      Ho detto come, chiuso in carcere a Portoferraio, io stendessi una scrittura, che lasciai inedita; perquisita dall'Accusa, si legge adesso, con mio rammarico (però che dei fatti del gennaio 1848 avrei voluto non rimanesse memoria, per onore di quelli che vi

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