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Repubblica;—il Re rispose con un sorriso agro-dolce, che voleva dire:—Troppa degnazione!—e strinse la mano all'Alcade, con grande meraviglia di tutti i presenti. Poi montò a cavallo, ed entrò in Saragozza. Il popolo, a quel che si dice, lo ricevette con festa, e molte signore gli lanciarono dalle finestre poesie, corone di fiori e colombe. In varii punti, il generale Cordova, e il general Rosell, che lo accompagnavano, dovettero sgombrargli la strada coi proprii cavalli. Mentre entrava nel Coso, una donna del popolo si slanciò innanzi per dargli un memoriale; il Re, ch'era già passato oltre, se n'accorse, tornò indietro, e lo prese. Poco dopo, gli si presentò un carbonaio, e gli porse la sua nera mano: il Re gliela strinse. Nella piazza di Santa Engracia, fu ricevuto da una sfarzosa mascherata di nani e di giganti, che lo salutarono con certe danze tradizionali, fra le grida assordanti della moltitudine. Così attraversò tutta la città. Il giorno dopo visitò la chiesa della Madonna di Pilar, gli ospedali, le carceri, il circo dei Tori, e in ogni parte fu festeggiato con quasi monarchico entusiasmo, non senza segreta bizza dell'Alcade che l'accompagnava, il quale avrebbe voluto che il popolo saragozzano si ristringesse all'osservanza del quinto comandamento:—Non ammazzare,—senza andare più in là delle sue modeste promesse. Liete accoglienze ebbe pure il Re sulla via da Saragozza a Logroño. A Logroño, in mezzo a una folla innumerevole di contadini, di guardie nazionali, di donne, di ragazzi, vide per la prima volta il venerando generale Espartero. Appena si videro, si corsero incontro; il generale cercò la mano del Re, il Re gli aperse le braccia; la folla gettò un grido di gioia: “Maestà,” disse l'illustre soldato con voce commossa, “i popoli vi accolgono con patriottico entusiasmo, perchè vedono nel loro giovane Monarca il più fermo sostegno della libertà e della indipendenza della patria, e son sicuri che se i nemici della nostra ventura tentassero di turbarla, Vostra Maestà, alla testa dell'esercito e della milizia cittadina, saprebbe confonderli e sgominarli. La mia affranta salute non mi permise d'andare a Madrid per felicitare Vostra Maestà e la sua Augusta Sposa per il loro avvenimento al trono di San Ferdinando. Oggi lo faccio, e ripeto anche una volta che servirò fedelmente la persona di Vostra Maestà come re di Spagna, eletto dalla volontà nazionale. Maestà, in questa città ho una modesta casa, e ve la offro, e vi prego d'onorarla della vostra presenza.”—Con queste semplici parole era salutato il nuovo Re dal più vecchio e più amato e più glorioso dei suoi sudditi. Felice auspicio, a cui mal risposer gli eventi!

      Verso mezzanotte andai a un veglione, in un teatro di mezzana grandezza, sul Coso, a poca distanza dalla piazza della Costituzione. Le maschere eran poche e meschinuccie; ma v'era per compenso una folla fittissima, della quale un buon terzo ballavano furiosamente. Fuor che dalla lingua, non mi sarei accorto di assistere ad un veglione d'un teatro di Spagna, piuttosto che a un veglione d'un teatro d'Italia; mi pareva di veder persino le stesse faccie. Poi il solito tramenío, la solita licenza di parole e di mosse, il solito degenerare dal ballo in una ridda clamorosa e sfrenata. Delle cento coppie di ballerini che mi passarono dinanzi, una sola mi rimase impressa nella memoria: un giovanotto d'una ventina d'anni, alto, snello, bianco, con due grand'occhi neri; e una ragazza della stessa età, bruna come un'andalusa; tutti e due belli e alteri, vestiti dell'antico costume aragonese, abbracciati stretti, viso contro viso, come se l'uno volesse respirare l'alito dell'altro, rossi come due viole e sfolgoranti di gioia. Passavano in mezzo alla folla, gettando intorno uno sguardo sdegnoso, e mille occhi li accompagnavano, e li seguiva un mormorio sordo di ammirazione e d'invidia. Uscendo dal teatro, mi fermai un momento sulla porta per rivederli passare, e poi me ne tornai all'albergo solo e malinconico. L'indomani mattina, prima dell'alba, partii per la Vecchia Castiglia.

      NOTE:

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      [1] Le piace mangiar con me?

       BURGOS.

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      Per andare da Saragozza a Burgos, città capitale della Vecchia Castiglia, si risale tutta la gran valle dell'Ebro, attraversando una parte dell'Aragona, e una parte della Navarra, fino alla città di Miranda, posta sulla strada di Francia che passa per San Sebastiano e Baiona. Il paese è pieno di ricordi storici, di rovine, di monumenti, di nomi famosi: ogni villaggio rammenta una battaglia, ogni provincia una guerra. A Tudela, i Francesi sconfissero il generale Castaños; a Calahorra, Sertorio resistette a Pompeo; a Navarrete, Enrico di Transtamare fu vinto da Pietro il Crudele; si vedono i vestigi della città di Egon ad Agoncillo, le rovine d'un acquedotto romano ad Alcanadre, i resti d'un ponte arabo a Logroño; la mente dura fatica ad abbracciare le memorie di tanti secoli e di tanti popoli, e l'occhio si stanca colla mente. L'aspetto della campagna varia ad ogni momento. Vicino a Saragozza son campi verdi sparsi di case e di viottole serpeggianti, per le quali si vede qualche gruppo di contadini, avvolti nei loro scialli variopinti, qualche somarello, qualche carro. Più oltre non sono che vaste pianure ondulate, nude, aride, senza un albero, senza una casa, senza un sentiero; ove non si vede che di miglio in miglio un armento, un pastore, una capanna; e qualche piccolo villaggio, composto di casuccie color terraceo, basse, che quasi si confondono col suolo; piuttosto gruppi di capanne, che villaggi, vere immagini di miseria e di squallore. L'Ebro serpeggia a grandi curve lungo la strada, ora vicino, che par che il treno ci si vada a tuffare, ora lontano, come una striscia d'argento, che appare e dispare fra le gobbe del terreno e i cespugli delle sponde. Lontano si vede una catena di monti azzurri, e al di là le cime bianche dei Pirenei. Presso Tudela si scopre il canale; dopo Custejon la campagna verdeggia; e via via, le pianure aride si alternano cogli oliveti, e qualche striscia di verde vivo rompe qua e là il giallognolo secco dei campi abbandonati. Sulle cime dei colli lontani si vedon rovine di castelli enormi, sormontate da torri tronche, spaccate, corrose, simili a grandi moncherini di giganti prostrati che minaccino ancora.

      A ogni stazione della strada ferrata comprai un giornale; prima d'arrivare a metà viaggio n'avevo un monte: giornali di Madrid e d'Aragona, grandi e piccini, neri e rossi; nessuno, sfortunatamente, amico di Don Amedeo. E dico sfortunatamente, perchè, a legger quei giornali, c'era da cadere in tentazione di voltar le spalle a Madrid e tornarsene a casa. Dalla prima all'ultima colonna, eran tutt'una sfuriata d'ingiurie, d'imprecazioni e di minaccie contro l'Italia: corna del nostro Re, roba da chiodi dei nostri ministri, ira di Dio del nostro esercito; tutto fondato sulla voce, che allora correva, d'una prossima guerra, nella quale l'Italia e la Germania alleate si sarebbero gettate sulla Francia e sulla Spagna, per distruggervi il Cattolicismo, nemico eterno di tutt'e due, e mettere sul trono di San Luigi il Duca di Genova, e assicurare il trono di Filippo II al Duca d'Aosta. Erano minaccie nell'articolo di fondo, minaccie nell'appendice, minaccie nelle notizie, in prosa, in versi, con figurine, con lettere cubitali, con lunghe righe di puntini; dialoghi tra il padre e il figlio, l'uno da Roma, e l'altro da Madrid, questi che domandava: “Che cosa ho da fare?” quello che rispondeva: “Fucila!” di tratto in tratto un: “Vengano! siamo pronti! siamo sempre la Spagna del 1808; i vincitori degli eserciti napoleonici non hanno paura nè del muso degli Ulani di re Guglielmo, nè del gridío dei Bersaglieri di Vittorio Emanuele.”—E poi Don Amedeo designato coll'appellativo di pobre bambino, l'esercito italiano chiamato un esercito di ballerini e di cantanti, gl'Italiani di Spagna invitati a sfrattare col poco gentile avvertimento di:—Italianos al tren!—(Italiani al treno); in somma, chiedete e domandate, ce n'era una per sorte. Vi confesso che, su quel subito, rimasi un po' turbato; m'immaginai che a Madrid gl'Italiani fossero poco meno che segnati a dito per le vie; mi ricordai della lettera ricevuta a Genova; ripetevo tra me e me quell'Italianos al tren, come un consiglio che meritasse una seria meditazione; guardavo con sospetto i viaggiatori che entravano nel carrozzone, e gl'impiegati della strada ferrata, e mi pareva che, al primo vedermi, tutti dovessero dire:—Ecco là un emissario italiano; mandiamolo a tener compagnia al general Prim.—

      Avvicinandosi a Miranda, la strada s'inoltra in una contrada montagnosa, varia, pittoresca; dove da qualunque parte si volga lo sguardo, non si vedon che roccie grigiastre, a perdita d'occhio, che rendon l'immagine d'un mare petrificato nell'atto della tempesta. È un paese pieno di bellezza selvaggia, solitario come un deserto, silenzioso come un ghiacciaio, che rappresenta

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