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pensieri,—benchè non proprio colle stesse parole, perchè non avevo sotto gli occhi un certo libricciuolo di Emilio Castelar,—io volgeva in mente entrando in Aragona. E per prima cosa mi si offerse agli occhi, sulla riva della Cinca, il piccolo villaggio di Monzon, noto per famose assemblee delle Cortes, e per alternati assalti e difese di Spagnuoli e Francesi: sorte che fu comune, durante la guerra d'indipendenza, a quasi tutti i villaggi di quelle provincie. Monzon è prostrato ai piedi d'un formidabile monte, sul quale s'innalza un castello nero, sinistro, enorme, quale avrebbe potuto immaginarlo il più fosco dei feudatarii per condannare a una vita di terrore il più odiato dei villaggi. La stessa Guida si arresta davanti a codesto mostruoso edifizio, e prorompe in un'esclamazione di timida meraviglia. Non v'è, io credo, in tutta la Spagna, un altro villaggio, un altro monte, un altro castello, che rappresentino meglio la paurosa sommessione d'un popolo oppresso, e la minaccia perpetua d'un signore feroce. Un gigante che prema il ginocchio sul petto d'un fanciullo steso a terra, è una meschina similitudine per dare un'immagine della cosa; e tale fu l'impressione che mi fece, che, pur non sapendo tenere in mano la matita, m'ingegnai di abbozzare alla meglio il paesaggio, perchè non mi uscisse dalla memoria; e mentre scarabocchiavo, mi venne fatto il primo verso d'una ballata lugubre.

      Dopo Monzon, la campagna aragonese non è che vaste pianure, chiuse in lontananza da lunghe catene di colline rossastre, con pochi miseri villaggi, e qualche colle solitario su cui nereggiano le rovine d'un castello antico. L'Aragona, già sì fiorente sotto i suoi Re, è ora una delle provincie più povere della Spagna. Solamente sulla sponda dell'Ebro, e lungo il canale famoso che si stende da Tudela, per diciotto leghe, fin presso Saragozza, e serve insieme all'irrigazione dei campi e al trasporto delle derrate, ha un po' di vita il commercio; nelle altre parti langue, od è morto. Le stazioni della strada ferrata sono deserte: quando il treno si ferma, non si sente altra voce che quella di qualche vecchio trovatore, che strimpella la chitarra, canterellando una canzone monotona, che si riode poi in tutte le altre stazioni, e in seguito nelle città aragonesi, variate le parole, eternamente uguale il motivo. Non essendoci che vedere fuori del finestrino, mi rivolsi ai compagni di viaggio.

      Il carrozzone era pieno di gente; e siccome i carrozzoni di seconda classe, in Spagna, non hanno scompartimenti, eravamo quaranta fra viaggiatori e viaggiatrici, visibili tutti uno all'altro: preti, monache, ragazzi, serve, e altri personaggi che potevano essere negozianti, o impiegati, o agenti segreti di Don Carlos. I preti fumavano, come è uso in Ispagna, il loro cigarrito, offerendo amabilmente ai vicini la scatola da tabacco e le cartoline; altri mangiavano a due palmenti, facendosi passare l'uno all'altro una specie di vescica che, compressa con ambe le mani, mandava uno schizzo di vino; altri leggevano il giornale corrugando tratto tratto le sopracciglia in atto di profonda meditazione. Uno spagnuolo, quand'è in compagnia, non si mette in bocca uno spicchio d'arancio, o una fetta di formaggio, o un boccone di pane, se prima non ha pregato tutti di mangiare con lui; e per questo io mi vidi passar sotto il naso frutta, e pani, e sardelle, e bicchieri di vino, e che so io, accompagnato ogni cosa da un gentile: “Gusta Usted comer[1] conmigo?” al quale risposi: “Gracias,” a contracorpo (è la parola che ci va) perchè avevo una fame da conte Ugolino. Davanti a me, proprio co' piedi contro i miei, c'era una monaca, giovane, a giudicarne dal mento, ch'era quel po' di viso che appariva sotto il velo, e da una mano che lasciava come abbandonata sur un ginocchio. Io le tenni gli occhi addosso per più d'un'ora, sperando che alzasse il viso; ma rimase immobile come una statua. Eppure dal suo atteggiamento era facile accorgersi che faceva uno sforzo per resistere alla naturalissima curiosità di guardarsi intorno; e per questo appunto mi destò un sentimento d'ammirazione.—Che costanza!—pensavo,—che vigore di volontà! che forza di sacrifizio, anche nelle più piccole cose! che nobile disprezzo delle vanità umane!—Stando in questi pensieri, chinai gli occhi sulla sua mano,—era una bianca e piccola mano—e mi parve di vederla muovere; guardo meglio, e vedo che si allunga adagio adagio fuor della manica, e allarga le dita, e si appoggia sul ginocchio un po' avanti, così, in modo da spenzolare, e si rigira un po' da un lato, e si raccoglie e si ridistende... Dei del cielo! Altro che disprezzo delle vanità umane! Era impossibile ingannarsi: tutto quel lavorìo era fatto per mettere in mostra la manina! E non alzò una volta la testa in tutto il tempo che rimase là, e non lasciò vedere il viso neanco quando scese! Oh imperscrutabile profondità dell'anima femminile!

      Era scritto che in quel viaggio non dovessi incontrar altri amici che i preti. Un vecchio sacerdote, di aspetto benevolo, mi diresse la parola, e cominciammo una conversazione che durò fin quasi a Saragozza. Da principio, quando gli dissi ch'ero italiano, stette un po' sospeso, pensando forse ch'io potevo esser uno di quelli che avean scassinato le serrature del Quirinale; ma avendogli detto che non m'occupavo di politica, si rasserenò, e parlò con piena fiducia. Si cascò nella letteratura; io gli dissi tutta la Pentecoste del Manzoni, che lo fece andare in visibilio; egli a me una poesia del celebre Luis de Leon, poeta sacro del secolo decimosesto; e diventammo amici. Quando giungemmo a Zoera, penultima stazione per arrivare a Saragozza, s'alzò, mi salutò, e posto il piede sul montatoio, si voltò improvvisamente e mi susurrò nell'orecchio: “Cuidado (prudenza) con las mujeres, que tienen muy malas consecuencias en España.” Poi scese e si fermò per veder partire il treno, e alzando una mano in atto di paterna ammonizione, disse ancora una volta: “Cuidado!

      Arrivai a Saragozza a notte avanzata, e scendendo, mi colpì subito l'orecchio la cadenza particolare colla quale parlavano i vetturini, i facchini e i ragazzi, che si disputavano la mia valigia. In Aragona si può dir che si parla il castigliano, anche dal popolo minuto, benchè con qualche storpiatura e qualche barbarismo; ma allo spagnuolo delle Castiglie basta una mezza parola per riconoscere l'aragonese; e non c'è castigliano infatti, che non sappia imitare quell'accento, e non lo metta, all'occasione, in ridicolo, per quello che ha di rozzo e di monotono, presso a poco come si fa in Toscana della parlata di Lucca.

      Entrai nella città con un certo sentimento di trepida riverenza; la terribile fama di Saragozza me ne imponeva; quasi mi mordeva la coscienza di averne tante volte profanato il nome nella scuola di Rettorica, quando lo gettavo in volto, come un guanto di sfida, ai tiranni; le strade eran buie; non vedevo che il nero contorno dei tetti e dei campanili sul cielo stellato; non sentivo che il rumore delle diligenze degli alberghi che si allontanavano. A certe svoltate, mi pareva di veder luccicare alle finestre canne di fucile e pugnali, e di udir grida lontane di feriti. Avrei dato non so quanto perchè spuntasse il giorno, per cavarmi la vivissima curiosità che mi stimolava, di visitar ad una ad una quelle strade, quelle piazze, quelle case famose per lotte disperate e uccisioni orrende, ritratte da tanti pittori, cantate da tanti poeti, e sognate da me tante volte prima di partire d'Italia, ripetendomi con gioia:—Le vedrai!—Giunsi finalmente al mio albergo, guardai fisso il cameriere che mi condusse alla camera, sorridendogli amorevolmente come per dire:—Non sono un invasore, risparmiami!—e data un'occhiata a un gran ritratto di Don Amedeo appeso alla parete del corridoio, in un canto, a particolare conforto dei viaggiatori italiani, andai a letto, chè cascavo di sonno come uno qualunque dei miei lettori.

      Allo spuntar del giorno mi precipitai fuori dell'albergo. Non c'era ancor nè botteghe, nè porte, nè finestre aperte; ma non appena misi il piede nella strada, mi scappò un mezzo grido di stupore. Passava una brigatella di uomini così stranamente vestiti, che io credetti a prima vista che fossero mascherati; e poi pensai: no, son comparse di teatro; e poi ancora: no, neppure, sono matti. Figuratevi: per cappello, un fazzoletto rosso annodato intorno al capo, a modo di cércine, dal quale uscivano sopra e sotto i capelli arruffati; una coperta di lana a striscie bianche e azzurre, indossata a guisa di mantello, ampia, cadente fin quasi a terra, come una toga romana; una larga fascia azzurra intorno alla vita; un paio di calzoncini corti, di velluto nero, stretti intorno al ginocchio; le calze bianche; una specie di sandali a nastri neri incrociati sul dosso del piede; e in questa artistica varietà di vestimento, l'impronta evidente della miseria; e con quest'evidenza di miseria, un non so che di teatrale, di altero, di maestoso nel portamento e nei gesti, un'aria da Grandi di Spagna decaduti, che mette in dubbio, al vederli, se s'abbia da ridere o da compiangere, da metter la mano alla borsa per fare un'elemosina o da levarsi il cappello in segno di riverenza. E non son altro che contadini dei dintorni di Saragozza. Ma quella che ho accennato non è che una delle mille varietà della stessa foggia di vestire. Andando oltre, ad ogni passo ne incontrai una nuova: vi sono i vestiti all'antica,

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