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piemontese, l'Italia, risalendo dall'entrata dell'esercito in Roma fino alla guerra delle Marche e dell'Umbria, che il mal capitato straniero diventò bianco come un cencio di bucato. Ma fatto forza a sè stesso, non rispose parola, e lasciò agli altri italiani, ch'erano amici di vecchia data, la cura di sostener l'onore del loro paese. La discussione durò un pezzo, e fu accanita; la signora s'accorse poi d'essersi lasciata andare tropp'oltre, e fece capire che n'era dolente; ma una cosa apparve chiarissima dalle sue parole, ed è ch'ella era convinta, e con lei chi sa quante! che l'unificazione d'Italia si fosse fatta contro la volontà del popolo italiano, dal Piemonte, dal Re, per avidità di dominio, per odio alla religione ec.

      Il basso popolo, però, repubblicaneggia, e come ha la reputazione di essere più pronto ai fatti di quello che non sia largo a parole, è temuto. Quando in Spagna si vuol sparger la voce d'una prossima rivoluzione, si comincia sempre dal dire che scoppierà a Barcellona, o che sta per scoppiarvi, o che v'è scoppiata.

      I catalani non vogliono esser messi a mazzo cogli Spagnuoli delle altre provincie; siamo Spagnuoli, dicono, ma, intendiamoci, di Catalogna; gente, vale a dire, che lavora e che pensa, e all'orecchio della quale è più gradito il rumore degl'ingegni meccanici che il suono delle chitarre. Noi non invidiamo all'Andalusia la fama romanzesca, le lodi dei poeti, e le illustrazioni dei pittori; noi ci contentiamo di essere il popolo più serio e più operoso della Spagna. Parlano in fatti dei loro fratelli del mezzogiorno, come i piemontesi parlavano una volta, ora meno, dei napoletani e dei toscani: «sì, hanno ingegno, immaginazione, parlan bene, divertono; ma noi abbiamo per contrapposto maggior vigore di volontà, maggiore attitudine agli studi scientifici, maggior istruzione popolare.... e poi.... il carattere....» Intesi un catalano, un uomo chiaro per ingegno e dottrina, lamentare che la guerra d'indipendenza avesse troppo affratellato le diverse provincie di Spagna, ond'era seguìto che i catalani contraessero una parte dei difetti dei meridionali, senza che questi acquistassero nessuna delle buone qualità dei catalani. Siamo diventati, diceva, mas ligeros de casco, più leggeri di testa, e non se ne sapeva dar pace. Un bottegaio al quale domandai che pensasse del carattere dei castigliani, mi rispose bruscamente che, a suo avviso, sarebbe una gran fortuna per la Catalogna, che non ci fosse strada ferrata tra Barcellona e Madrid, perchè il commercio con quella gente corrompe il carattere e i costumi del popolo catalano. Quando parlano d'un deputato parolaio, dicono:—Eh! già... è un andaluso.—Poi mettono in ridicolo il loro linguaggio poetico, la pronunzia sdolcinata, la gaiezza infantile, la vanità, l'effeminatezza. Quelli, per contro, parlano dei catalani come una signorina capricciosa, letterata e pittrice, parlerebbe d'una di quelle ragazze massaie, che leggono di preferenza la Cuciniera genovese che i romanzi di George Sand. Son gente dura, dicono, tutta d'un pezzo, che non ha il capo ad altro che all'aritmetica e alla meccanica; barbari, che farebbero d'una statua del Montanes un frantoio e d'una tela del Murillo un incerato; veri Beoti della Spagna, insopportabili con quel loro gergaccio, con quella musoneria, con quella gravità di pedanti.

      La Catalogna, infatti, è forse la provincia di Spagna, che conta meno nella storia delle belle arti. Il solo poeta, non grande, ma celebre, che sia nato in Barcellona, è Giovanni Boscan, che fiorì sul principio del secolo decimosesto, e introdusse pel primo nella letteratura spagnuola il verso endecasillabo, la canzone, il sonetto, e tutte le forme della poesia lirica italiana di cui era ammiratore appassionato. Da che dipende una grande trasformazione, come fu questa, di tutta la letteratura d'un popolo! Dall'esser andato a stare il Boscan a Granata, quando v'era la Corte di Carlo V, e aver conosciuto là un ambasciatore della repubblica di Venezia, Andrea Navagero, che sapeva a memoria i versi del Petrarca, e glieli recitava, e gli diceva:—Mi pare che potreste scriver così anche voialtri; provate!—Il Boscan provò; tutti i letterati di Spagna gli gridaron la croce addosso. E che il verso italiano non sonava, e che la poesia di Petrarca era una sdolcinatura da femminette, e che la Spagna non aveva bisogno di strascicar l'estro sulla falsariga di nessuno. Ma il Boscan tenne duro: Garcilaso della Vega, il valoroso cavaliere, amico suo, che ricevette poi il glorioso titolo di Malherbe della Spagna, lo seguì; il drappello dei riformatori s'ingrossò a poco a poco, divenne esercito, vinse e dominò l'intera letteratura. Il vero consumatore della riforma fu il Garcilaso; ma il Boscan ebbe il merito della prima idea, onde a Barcellona l'onore d'aver dato alla Spagna chi fece mutar il viso alla sua letteratura.

      Nei pochi giorni che rimasi a Barcellona, solevo passar la sera con alcuni giovani catalani, passeggiando sulla riva del mare, al lume della luna, fino a notte avanzata. Sapevan tutti un po' d'italiano, ed erano amantissimi della nostra poesia; così che per ore e per ore non si faceva che declamar versi, essi dello Zorilla, dell'Espronceda, del Lopez de Vega, io del Foscolo, del Berchet, del Manzoni; intercalati, con una sorta di gara, a chi ne diceva di più belli. È un sentimento nuovo quello che si prova dicendo versi dei nostri poeti in un paese straniero. Quando vedevo i miei amici spagnuoli tutti intenti al racconto della battaglia di Maclodio, a poco a poco scotersi, infiammarsi e poi afferrarmi pel braccio ed esclamare con un accento castigliano che mi rendeva più care le loro parole:—Bello! sublime!;—mi sentivo rimescolare il sangue, tremavo; se fosse stato giorno, credo che m'avrebbero visto diventar bianco come la carta. Mi recitarono dei versi in lingua catalana. E dico lingua, perchè ha una storia e una letteratura propria e non fu relegata allo stato di dialetto che dal predominio politico assunto dalla Castiglia che impose l'idioma suo come idioma generale dello Stato. E benchè sia una lingua aspra, tutta parole tronche, ingrata, sulle prime, a chi abbia nulla nulla l'orecchio delicato, ha nondimeno dei pregi notevolissimi, dei quali i poeti popolari si valsero con ammirabile maestria, prestandosi essa particolarmente all'armonia imitativa. Una poesia, che mi recitarono, di cui le prime strofe imitano il rumore cadenzato d'un treno di strada ferrata, mi strappò un grido di meraviglia. Ma senza spiegazioni, anche per chi conosca la lingua spagnuola, il Catalano non è intelligibile. Parlan presto, coi denti stretti, senza aiutar la voce col gesto, così ch'è difficile cogliere il senso d'un periodo anche semplicissimo, ed è un gran chè se s'intende qualche parola di volo. Anche la gente del popolo, però, parla, quando occorre, il castigliano, stentatamente e senza grazia; ma sempre assai meglio che non si parli l'italiano dal basso popolo delle Provincie settentrionali d'Italia. Neanco le persone colte, in Catalogna, parlano perfettamente la lingua nazionale; il castigliano riconosce il catalano alla prima, oltre che alla pronunzia, alla voce, e sopratutto alla illegittima frase scarsa. Per questo uno straniero che vada in Spagna coll'illusione di saper parlare la lingua con garbo, può, fin che sta in Catalogna, serbar la sua illusione; ma quando penetri nelle Castiglie, e senta per la prima volta quello scoppiettío di frizzi, quella profusione di proverbi, di modi, d'idiotismi arguti ed efficacissimi, che lo fan rimanere a bocca aperta, come l'Alfieri dinanzi a Monna Vocaboliera quando gli discorreva di calzette, addio illusioni!

      L'ultima sera andai al Teatro del Liceo, che ha fama di essere uno dei più belli d'Europa, e forse il più vasto. Era pieno zeppo di gente dalla platea alla piccionaia, che non ci sarebbe più capito un centinaio di persone. Dal palco in cui ero io, si vedevan le signore della parte opposta piccine come bimbe; e a socchiuder gli occhi, non apparivan più che tante strisce bianche, una ad ogni ordine di palchi, tremolanti e luccicanti come immense ghirlande di camelie imperlate di rugiada e agitate dal zeffiro. I palchi, vastissimi, sono divisi da un assito che s'abbassa dal muro verso il parapetto, lasciando scoperto tutto il busto delle persone sedute sulle prime seggiole; in modo che, all'occhio, il teatro par fatto tutto a gallerie, e n'acquista un'aria di leggerezza che fa un bellissimo vedere. Tutto sporge, tutto è scoperto, la luce batte in ogni parte, ogni spettatore vede tutti gli spettatori, le corsie son spaziose, si va, si viene, si gira a tutt'agio da ogni lato, si può contemplare ogni signora da mille punti, passare dalle gallerie ai palchi, dai palchi alle gallerie, passeggiare, far crocchio, bighellonare tutta la sera di qua e di là, senza urtar nel gomito anima viva. Le altre parti dell'edifizio sono proporzionate alla principale: corridoi, scale, pianerottoli, vestiboli da gran palazzo. Vi son sale da ballo ampie e splendide, nelle quali si potrebbe piantare un altro teatro. Eppure, anche qui dove i buoni Barcellonesi non dovrebbero pensare ad altro che a ricrearsi dalle fatiche della giornata nella contemplazione delle loro belle e superbe donne, anche qui i buoni Barcellonesi comprano, vendono, giocano, trafficano, come anime dannate. Nei corridoi è un andirivieni continuo di agenti di banca, di commessi d'uffizio, di portatori di dispacci, e un continuo vocìo da mercato. Barbari! Quanti bei visi, quanti begli occhi, quante stupende capigliature brune in quella folla di signore!

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