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ricchissimo, e un archivio che è uno dei più vasti empori di documenti storici dal secolo IX ai tempi nostri, cioè dai primi Conti di Catalogna alla guerra d'indipendenza.

      Fuor della città, una delle cose più notevoli è il Cimitero, a una mezz'ora di carrozza dalle porte, in mezzo a una vasta pianura. Visto di fuori, dalla parte dell'entrata, pare un giardino; e fa sollecitare il passo con un sentimento di curiosità quasi allegra. Oltrepassata appena la soglia, si è dinanzi a uno spettacolo nuovo, indescrivibile, affatto diverso da quello a cui si era preparati. Si è in mezzo a una città silenziosa, attraversata da lunghe strade deserte, fiancheggiate da muri di uguale altezza, diritte, chiuse in fondo da altri muri. Si va oltre, si arriva a un crocicchio, e di là si vedono altre strade, altri muri in fondo, altri crocicchi lontani. Par di essere a Pompei. I morti son messi dentro ai muri, per lungo, e disposti in varii ordini, come i libri nelle biblioteche. A ogni cassa, corrisponde sul muro una specie di nicchietta, nella quale è scritto il nome del sepolto; dove non c'è sepolto alcuno, la nicchia porta scritta la parola: Propriedad, che vuol dire che il posto è stato comprato. La maggior parte delle nicchie sono chiuse da un vetro, altre da inferriate, altre da una rete sottilissima di fil di ferro, e contengono una varietà grande di oggetti postivi dalle famiglie in omaggio dei morti: come ritratti in fotografia, altarini, quadri, ricami, fiori finti, e sovente anco ninnoli che loro furono cari in vita, nastri, monili di donne, giocattoli di ragazzi, libri, spille, quadretti; mille cose che rammentan la casa e la famiglia, e indicano la professione di coloro cui appartenevano; e non si possono guardare senza tenerezza. Di tratto in tratto si vede una di codeste nicchie sfondate, e dentro buio: segno che ci si ha da mettere una cassa nella giornata. La famiglia del morto deve pagare un tanto all'anno per quello spazio: quando cessa di pagare, la cassa vien tolta di là e portata nella fossa comune del camposanto dei poveri a cui si giunge per una di quelle strade. Mentre ero là, fu fatta una sepoltura: vidi in lontananza mettere la scala, e sollevar su la cassa, e tirai via. Una notte un pazzo si cacciò in uno di quei fori vuoti: passò un guardiano del cimitero con una lanterna, il pazzo mandò un grido per fargli paura, e il pover'omo cadde a terra come fulminato, e fece una malattia mortale. In una nicchia vidi una bella treccia di capelli biondi, che erano appartenuti a una ragazza di quindici anni, morta annegata, e c'era cucita una cartolina con su scritto:—Querida!—(Cara!)—A ogni passo, si vede qualcosa che colpisce la mente ed il cuore: tutti quegli oggetti fanno l'effetto d'un mormorìo confuso di voci di madri, di spose, di bambini, di vecchi, che dicano sommessamente a chi passa:—Son io! Guarda!—Ad ogni crocicchio sorgono statue, tempietti, obelischi, con iscrizioni in onore dei cittadini di Barcellona che fecero opere di carità durante l'infierire della febbre gialla nel 1821 e nel 1870.

      Questa parte del Cimitero, fabbricata, se così può dirsi, a città, appartiene alla classe media della popolazione; e confina con due vasti recinti, uno destinato ai poveri, nudo, piantato di grandi croci nere; l'altro destinato ai ricchi, più vasto anche del primo, coltivato a giardino, circondato di cappelle, vario, ricco, stupendo. In mezzo a una foresta di salici e di cipressi, s'innalzano da ogni parte colonne, cippi, tombe enormi, cappelle marmoree sopraccariche di sculture, sormontate da ardite figure d'arcangelo che levan le braccia al cielo; piramidi, gruppi di statue, monumenti vasti come case che sovrastano agli alberi più alti; e fra monumento e monumento, cespugli, cancellate, aiuole fiorite; e nell'entrata, tra questo e l'altro campo santo, una stupenda chiesuola di marmo, cinta di colonne, mezzo nascosta dagli alberi, che prepara nobilmente l'animo al magnifico spettacolo del di dentro. All'uscire da questo giardino, si riattraversano le strade deserte della necropoli, che paiono anche più silenziose e più triste che al primo entrare. Varcata la soglia, si risaluta con piacere le case variopinte dei sobborghi di Barcellona sparse per la campagna, come avantiguardie messe là ad annunziare che la popolosa città si dilata e si avanza.

      Dal Camposanto al caffè, è un bel salto; ma viaggiando se ne fanno anche di più lunghi. I caffè di Barcellona, come quasi tutti i caffè della Spagna, sono un solo vastissimo salone ornato di grandi specchi, con tanti tavolini quanti ce ne posson capire; dei quali è raro che rimanga libero un solo, neanco per una mezz'ora, in tutta la giornata. La sera son tutti pieni, affollati, da dover molte volte aspettare un bel pezzo per avere un posticino accanto alla porta; intorno a ogni tavolino, v'è un crocchio di cinque o sei caballeros, colla capa sulle spalle (un mantello di panno oscuro, munito d'un'ampia pellegrina, che si porta in vece del nostro pastrano); e in ogni crocchio si giuoca al domino. È il giuoco più in voga presso gli Spagnuoli. Nei caffè, dall'imbrunire sino a mezzanotte, si sente un rumore fitto, continuo, assordante, come il rumor della grandine, di migliaia di tessere volte e rivolte da centinaia di mani, che quasi bisogna alzare la voce per farsi sentire da chi vi è accanto. La bevanda più usuale è il cioccolatte, squisitissimo in Spagna, portato per lo più in piccole chicchere, denso come conserva di ginepro e caldo da scorticare la gola. Una di queste tazzine, con una goccia di latte, e una pasta particolare, che si chiama bollo (boglio), morbidissima, è una colezione da Lucullo. Fra un bollo e l'altro, feci i miei studii sul carattere catalano, discorrendo con tutti i Don Fulanos (nome sacramentato in Ispagna come il Tizio fra noi) che ebbero la bontà di non pigliarmi per una spia mandata da Madrid a fiutar l'aria della Catalogna.

      Gli animi, in quei giorni, erano molto eccitati dalla politica. A me occorse parecchie volte, parlando innocentissimamente d'un giornale, d'un personaggio, d'un fatto qualsiasi col caballero che m'accompagnava, o nel caffè, o in una bottega, o al teatro; mi occorse, dico, di sentirmi toccare la punta del piede e mormorare nell'orecchio:—Badi, questo signore alla sua destra è un Carlista.—Zitto, quello lì è un repubblicano.—Quell'altro là è un sagastino.—Questo accanto è un radicale.—Quello laggiù è un cimbrio.—Tutti parlavano di politica. Trovai un carlista arrabbiato in un barbiere, il quale, accortosi dalla mia pronunzia ch'ero un conciudadano del Rey, tentò, così alla larga, di tirarmi nel discorso. Io non dissi parola, perchè mi stava radendo, e un risentimento del mio orgoglio nazionale ferito avrebbe potuto far correre il primo sangue della guerra civile; ma il barbiere insistè, e non sapendo per qual altra via venire all'argomento, uscì a dire con accento gentile: “Sabe Usted, caballero, si hubiera la guerra entre Italia y España, España no tuviera miedo (non avrebbe paura).”—“Ne sono persuasissimo,” risposi, badando al rasoio. Poi mi assicurò che la Francia avrebbe dichiarato la guerra all'Italia non appena avesse pagato la Germania; no hay escapatoria. Non risposi. Allora egli stette un po' sopra pensiero, e poi disse maliziosamente: “Cosas grandes van à acontecer (accadere) dentro de poco!” Piacque però ai Barcellonesi che il Re si fosse presentato a loro in atto confidente e tranquillo, e la gente del popolo ricorda la sua entrata in città con ammirazione. Trovai simpatia per il Re anche in alcuni che mormoravano a denti stretti:—no es español,—o come mi domandò un tale: “Pare a lei che starebbe bene a Roma o a Parigi un rey castellano?”—domanda a cui si risponde:—“No entiendo de politica,”—ed è discorso finito.

      Ma i veramente implacabili sono i Carlisti. Dicon della nostra rivoluzione roba da cani in buonissima fede, essendo la maggior parte convinti, che il vero re d'Italia sia il Papa, che l'Italia lo voglia, e che abbia chinato il capo sotto la spada di Vittorio Emanuele, perchè non c'era modo di far altrimenti; ma che aspetti l'occasione propizia per liberarsene, come ha fatto dei Borboni e degli altri. E può giovare a provarlo il seguente aneddoto che io riferisco, come l'ho sentito narrare, senza neanco un'ombra d'intenzione di ferire la persona che n'è attore principale. Una volta un giovane italiano, che io conosco intimamente, fu presentato a una delle più ragguardevoli signore della città, e ricevuto con una squisita cortesia. Erano presenti alla conversazione parecchi italiani. La signora parlò con molta simpatia dell'Italia, ringraziò il giovane dell'entusiasmo che mostrava d'avere per la Spagna, mantenne, in una parola, una viva e gioviale conversazione coll'ospite riconoscente per quasi tutta la serata. A un tratto gli domandò: “E tornando in Italia, in che città s'andrà a stabilire?”

      “A Roma,” rispose il giovane.

      “Per difendere il Papa?” domandò la signora con la più schietta franchezza.

      Il giovane la guardò, e rispose sorridendo ingenuamente: “No, davvero.”

      Quel no scatenò una tempesta. La signora scordò che il giovane era italiano, e suo ospite,

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