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per reverenza della patria: — quindi, composto quanto gli riuscì meglio il sembiante, trasmise con voce sonora gli ordini consigliati e comandò a Francesco marchese del Monte, tolti seco i mille fanti, accorresse in aiuto dell'Altoviti, accompagnandolo con sì calde raccomandazioni di travagliarsi in pro della Repubblica, e parole sì ardenti di sacrifizio e di zelo che molti, persuasi della sua fuga, si ricrederono, prestando fede alle parole del Ferruccio.

      Cotesta ora fu piena di amarezza per l'Albizzi, un'ora di passione; mai croce al mondo tanto pesò sugli omeri mortali: sicchè il Ferruccio, sottilmente investigando quel volto che a mano a mano a fior di pelle s'increspava per lo interno lacerarsi dell'anima e il fremito fitto che gli investiva le membra al pensiero terribile che di repente gli suonasse negli orecchi la parola: — cervo, lascia la pelle del lione; — insieme a disprezzo prese ad averne pietà, sempre più imprecando sventura sul capo dei Dieci, i quali, il nome anteponendo alla virtù, lo avevano scelto a Commissario.

      Così senz'altro accidente procederono fin presso a poche miglia da Firenze: andavano mesti e taciturni, perchè pesava a tutti il dolore di cotesta fuga, e, al rivedere che facevano adesso le mura dilette della patria, sentivano più fieramente tormentarsi la coscienza... Che cosa sarebbe stato di lei, se, come principiarono, avessero continuato a difenderla? Sopra gli altri dimesso nell'animo s'innoltra l'Albizzi, col mento abbandonato sul petto, stordito da pensieri senza séguito, — da dolori senza nome; — chiunque lo avesse incontrato per la via, lo avrebbe detto un masnadiere condotto a guastarsi.

      Giunti che furono in parte dove il sentiero si divide in due diversi cammini, l'uno dei quali mena a Firenze, l'altro ai borghi e alle ville circostanti alla città, il Ferruccio, frenando all'improvviso il cavallo, chiamò:

      «Messere Antonfrancesco!»

      L'Albizzi, assorto nella sua meditazione, non lo intendeva, sicchè egli poco dopo più forte replicava:

      «Messere Antonfrancesco!»

      «Chi mi vuole?»

      «Se non vi fosse gravoso, piacerebbevi dirmi qual cosa divisate di fare?»

      «L'ufficio mio, capitano: andarmene ai Dieci ed esporre loro un ragguaglio fedele della mia commissione.»

      «Allora più poca via vi rimane a fare in questo mondo: — dai Dieci al bargello, dal bargello ai sepolcri della vostra famiglia.»

      «E perchè, Ferruccio, perchè? Forse non ebbi consiglio da Malatesta di abbandonare Arezzo? Forse non è vero, ch'essendo debole, mal si poteva tenere, e, perdute queste genti, la città nostra diventava affatto disarmata[49]? Forse la cittadella non si trova adesso convenientemente presidiata?»

      «E vi gioveranno siffatte difese quando là presso ai Dieci troverete un uomo che prenderà a perseguitare la vostra vita, come veltro la fiera, e narrerà la fuga, la paura, la viltà vostra, sostenendo la vostra morte all'onore e alla salute della patria necessaria; senza il vostro sangue tutta disciplina militare spenta, ogni vincolo sciolto; a cagione dell'esempio pessimo i valenti diventare deboli, vilissimi i vili; il vostro capo, in ogni tempo per la colpa commessa giustamente reciso, doversi adesso mozzare per giustizia e per ragione di stato; i principii delle repubbliche avere ad essere inesorabili, testimone Roma? E quando gli esempi e gli argomenti non bastino, cotesto uomo si squarcerà le vesti, si cuoprirà il capo di cenere; prostrato a terra, con le mani giunte, piangendo dirotto, nel nome santo di Dio implorerà che la scure del carnefice vi percuota la testa...»

      E siccome l'Albizzi, esterrefatto, si guardava attorno e poi i suoi occhi negli occhi del Ferruccio fissava, quasi per domandare chi fosse quel suo implacabile nemico ed in qual modo lo potesse accusare dopo che egli con tanto sottile accorgimento gli aveva onestata la fuga, il Ferruccio, forte percotendosi il petto, esclamò:

      «Io sono quel desso!»

      L'Albizzi, profondamente avvilito, non riusciva a formare parole. Stettero alquanto in silenzio, e quindi riprese il Ferruccio a favellare così:

      «Io però non vi odio, Antonfrancesco... nè voi... nè altrui...; odio la colpa... il colpevole non posso...; nè vorrei che voi moriste disonorato, no... non vorrei; il vostro delitto è certo, certa la pena...; se il piè ponete in Fiorenza, il palco infame vi aspetta; ponetevi in salvo pertanto, cercatevi un asilo finchè vi si offra modo di morire onoratamente combattendo per la patria..., dico morire... dacchè vivere più non potete; quando pure vi poneste sul capo gli allori di Alessandro e di Cesare, non basterebbero a gran pezza per ricoprirvi il brutto segno che l'ultima vostra azione v'impresse nella fronte; solo può rigenerarvi il battesimo di sangue..., perocchè allora i cittadini, l'andata vita tacendo, incideranno sopra la vostra lapide queste parole: Morì per la patria; e i posteri, senz'altro cercare, l'anima vi conforteranno di suffragi e la memoria con le lodi serbate ai valorosi...»

      E stava per continuare, quando, per la via traversa che mena alle castella del contado, ecco apparire un uomo di villa accorrente a gran fretta, levando dietro a sè un lungo polverio. Venuto presso ai nostri personaggi, il Ferruccio, accennandogli prima con la mano sostasse, lo interrogò dicendo:

       «Donde vieni e dove vai?»

      «Io vado, messere, per una trista novella..., trista in verità..., una novella che nessuno vorrebbe portare, e pure bisogna che qualcheduno porti, perchè la è cosa che riguarda l'anima; e un figliuolo mal può dipartirsi contento da questo mondo, se prima non lo abbia benedetto suo padre. Vengo da Nipozzano.»

      «Nipozzano!» esclama Antonfrancesco Albizzi alzando di subito la faccia, «casa mia!»

      «Domine! ho io le traveggiole, o siete ben voi messer lo padrone! Oh non vi aveva mica riconosciuto! Ma dacchè la è andata così, fatevi animo e raccomandatevi al Signore, perchè lo hanno spacciato...»

      «Chi dunque? chi?»

      «Messere Lorenzo, il padrone giovane... il vostro figliuolo si trova in extremis...»

      «Dio eterno, qual castigo mi dài!...»

      Francesco Ferruccio, del tutto fisso nella sua idea di onore patrio, di decoro della milizia italiana, oltre la quale le cose altrui poco curava, le proprie nulla, quasi lieto diceva:

      «Messere Antonfrancesco, nè più onesto nè meglio conveniente motivo di questo vi potea parare la fortuna davanti per abbandonare la ordinanza e ritirarvi lontano dalla città.»

      L'Albizzi, udite le parole, immaginando irridesse al suo dolore, lo guardò in atto di rampogna e poi levò disperato gli occhi lagrimosi verso il cielo. Allora sentì il Ferruccio il detto inconsigliato, e la sua anima gentile n'ebbe rincrescimento profondo; onde con voce piena di pietà, toccandolo leggermente sul braccio, soggiunse:

      «Nè più doloroso..., messere, nè più per un padre desolante davvero...; e se Dio ve lo mandava in pena delle vostre colpe..., parmi anche troppo.»

      L'Albizzi, riconciliato, gli strinse la mano, — e senza altre parole aggiungere, traendo un gemito, si allontanò.

      Durante l'assedio egli stette ritirato in campagna. Un po' per paura, un poco per vergogna, non ardì prendere parte alcuna negli sforzi gloriosi operati da' suoi concittadini in difesa della patria; la sovvenne di pecunia, ma poca: scrivono mille scudi[50]. Spenta la libertà, la tirannide istituita, mal potendo l'animo suo comportare i nuovi modi, cospirò contro Cosimo I, Tiberio toscano: preso a Montemurlo cogli altri congiurati, dannato nel capo[51], troppo tardi imparava dovere gli uomini liberi mettere a repentaglio le sostanze e la vita a mantenere la libertà quando ha fiore di verde; l'occasione nelle cose politiche condurre con una mano la buona fortuna, con l'altra la morte; i provvedimenti intempestivi come non procurano la gratitudine altrui, così quasi sempre cagionano la rovina a cui li tenta. Morì per le mani del tiranno, non per la libertà; lo mosse insofferenza di servitù, non amore del bene del popolo, sicchè i posteri gli negarono per fino quel sospiro di pietà, — tenue mercede eppur cara, — di cui tanto si confortano le ombre dei grandi infelici[52].

      Il cavallo di Arezzo[53] insaniva sfrenato, ma non per durare, il conte Rosso promise la libertà agli Aretini, e non gliela potè mantenere; promise al principe di Orange il dominio libero della città, e non

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