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félli.

      13 Già eravam da la selva rimossi

      tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,

      perch’ io in dietro rivolto mi fossi,

      16 quando incontrammo d’anime una schiera

      che venian lungo l’argine, e ciascuna

      ci riguardava come suol da sera

      19 guardare uno altro sotto nuova luna;

      e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia

      come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.

      22 Così adocchiato da cotal famiglia,

      fui conosciuto da un, che mi prese

      per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».

      25 E io, quando ’l suo braccio a me distese,

      ficcai li occhi per lo cotto aspetto,

      sì che ’l viso abbrusciato non difese

      28 la conoscenza sua al mio ’ntelletto;

      e chinando la mano a la sua faccia,

      rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».

      31 E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia

      se Brunetto Latino un poco teco

      ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia».

      34 I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;

      e se volete che con voi m’asseggia,

      faròl, se piace a costui che vo seco».

      37 «O figliuol», disse, «qual di questa greggia

      s’arresta punto, giace poi cent’ anni

      sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.

      40 Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;

      e poi rigiugnerò la mia masnada,

      che va piangendo i suoi etterni danni».

      43 Io non osava scender de la strada

      per andar par di lui; ma ’l capo chino

      tenea com’ uom che reverente vada.

      46 El cominciò: «Qual fortuna o destino

      anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?

      e chi è questi che mostra ’l cammino?».

      49 «Là sù di sopra, in la vita serena»,

      rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle,

      avanti che l’età mia fosse piena.

      52 Pur ier mattina le volsi le spalle:

      questi m’apparve, tornand’ io in quella,

      e reducemi a ca per questo calle».

      55 Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,

      non puoi fallire a glorioso porto,

      se ben m’accorsi ne la vita bella;

      58 e s’io non fossi sì per tempo morto,

      veggendo il cielo a te così benigno,

      dato t’avrei a l’opera conforto.

      61 Ma quello ingrato popolo maligno

      che discese di Fiesole ab antico,

      e tiene ancor del monte e del macigno,

      64 ti si farà, per tuo ben far, nimico;

      ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi

      si disconvien fruttare al dolce fico.

      67 Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;

      gent’ è avara, invidiosa e superba:

      dai lor costumi fa che tu ti forbi.

      70 La tua fortuna tanto onor ti serba,

      che l’una parte e l’altra avranno fame

      di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

      73 Faccian le bestie fiesolane strame

      di lor medesme, e non tocchin la pianta,

      s’alcuna surge ancora in lor letame,

      76 in cui riviva la sementa santa

      di que’ Roman che vi rimaser quando

      fu fatto il nido di malizia tanta».

      79 «Se fosse tutto pieno il mio dimando»,

      rispuos’ io lui, «voi non sareste ancora

      de l’umana natura posto in bando;

      82 ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,

      la cara e buona imagine paterna

      di voi quando nel mondo ad ora ad ora

      85 m’insegnavate come l’uom s’etterna:

      e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo

      convien che ne la mia lingua si scerna.

      88 Ciò che narrate di mio corso scrivo,

      e serbolo a chiosar con altro testo

      a donna che saprà, s’a lei arrivo.

      91 Tanto vogl’ io che vi sia manifesto,

      pur che mia coscienza non mi garra,

      ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.

      94 Non è nuova a li orecchi miei tal arra:

      però giri Fortuna la sua rota

      come le piace, e ’l villan la sua marra».

      97 Lo mio maestro allora in su la gota

      destra si volse in dietro e riguardommi;

      poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

      100 Né per tanto di men parlando vommi

      con ser Brunetto, e dimando chi sono

      li suoi compagni più noti e più sommi.

      103 Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono;

      de li altri fia laudabile tacerci,

      ché ’l tempo saria corto a tanto suono.

      106 In somma sappi che tutti fur cherci

      e litterati grandi e di gran fama,

      d’un peccato medesmo al mondo lerci.

      109 Priscian sen va con quella turba grama,

      e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,

      s’avessi avuto di tal tigna brama,

      112 colui potei che dal servo de’ servi

      fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,

      dove lasciò li mal protesi nervi.

      115 Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone

      più lungo esser non può, però ch’i’ veggio

      là surger nuovo fummo del sabbione.

      118 Gente vien con la quale esser non deggio.

      Sieti raccomandato il mio Tesoro,

      nel qual io vivo ancora, e più non cheggio[12]».

      121 Poi si rivolse, e parve di coloro

      che corrono a Verona il drappo verde

      per la campagna; e parve di costoro

      124 quelli che vince, non colui che perde.

      Canto

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<p>12</p>

cheggio = chiedo – «gg» иногда стоит вместо d