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fida

      lungo la proda del bollor vermiglio,

      dove i bolliti facieno alte strida.

      103 Io vidi gente sotto infino al ciglio;

      e ’l gran centauro disse: «E’ son tiranni

      che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.

      106 Quivi si piangon li spietati danni;

      quivi è Alessandro, e Dionisio fero

      che fé Cicilia aver dolorosi anni.

      109 E quella fronte c’ha ’l pel così nero,

      è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,

      è Opizzo da Esti, il qual per vero

      112 fu spento dal figliastro sù nel mondo».

      Allor mi volsi al poeta, e quei disse:

      «Questi ti sia or primo, e io secondo».

      115 Poco più oltre il centauro s’affisse

      sovr’ una gente che ’nfino a la gola

      parea che di quel bulicame uscisse.

      118 Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,

      dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio

      lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola».

      121 Poi vidi gente che di fuor del rio

      tenean la testa e ancor tutto ’l casso;

      e di costoro assai riconobb’ io.

      124 Così a più a più si facea basso

      quel sangue, sì che cocea pur li piedi;

      e quindi fu del fosso il nostro passo.

      127 «Sì come tu da questa parte vedi

      lo bulicame che sempre si scema»,

      disse ’l centauro, «voglio che tu credi

      130 che da quest’ altra a più a più giù prema

      lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge

      ove la tirannia convien che gema.

      133 La divina giustizia di qua punge

      quell’ Attila che fu flagello in terra,

      e Pirro e Sesto; e in etterno munge

      136 le lagrime, che col bollor diserra,

      a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,

      che fecero a le strade tanta guerra».

      139 Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.

      Canto XIII

      Non era ancor di là Nesso arrivato,

      quando noi ci mettemmo per un bosco

      che da nessun sentiero era segnato.

      4 Non fronda verde, ma di color fosco;

      non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;

      non pomi v’eran, ma stecchi con tosco.

      7 Non han sì aspri sterpi né sì folti

      quelle fiere selvagge che ’n odio hanno

      tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.

      10 Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,

      che cacciar de le Strofade i Troiani

      con tristo annunzio di futuro danno.

      13 Ali hanno late, e colli e visi umani,

      piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;

      fanno lamenti in su li alberi strani.

      16 E ’l buon maestro «Prima che più entre,

      sappi che se’ nel secondo girone»,

      mi cominciò a dire, «e sarai mentre

      19 che tu verrai ne l’orribil sabbione.

      Però riguarda ben; sì vederai

      cose che torrien fede al mio sermone».

      22 Io sentia d’ogne parte trarre guai

      e non vedea persona che ’l facesse;

      per ch’io tutto smarrito m’arrestai.

      25 Cred’ io ch’ei credette ch’io credesse

      che tante voci uscisser, tra quei bronchi,

      da gente che per noi si nascondesse.

      28 Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi

      qualche fraschetta d’una d’este piante,

      li pensier c’hai si faran tutti monchi».

      31 Allor porsi la mano un poco avante

      e colsi un ramicel da un gran pruno;

      e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».

      34 Da che fatto fu poi di sangue bruno,

      ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?

      non hai tu spirto di pietade alcuno?

      37 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:

      ben dovrebb’ esser la tua man più pia,

      se state fossimo anime di serpi».

      40 Come d’un stizzo verde ch’arso sia

      da l’un de’ capi, che da l’altro geme

      e cigola per vento che va via,

      43 sì de la scheggia rotta usciva insieme

      parole e sangue; ond’ io lasciai la cima

      cadere, e stetti come l’uom che teme.

      46 «S’elli avesse potuto creder prima»,

      rispuose ’l savio mio, «anima lesa,

      ciò c’ha veduto pur con la mia rima,

      49 non averebbe in te la man distesa;

      ma la cosa incredibile mi fece

      indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.

      52 Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece

      d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi

      nel mondo sù, dove tornar li lece».

      55 E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,

      ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi

      perch’ io un poco a ragionar m’inveschi.

      58 Io son colui che tenni ambo le chiavi

      del cor di Federigo, e che le volsi,

      serrando e diserrando, sì soavi,

      61 che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;

      fede portai al glorioso offizio,

      tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

      64 La meretrice che mai da l’ospizio

      di Cesare non torse li occhi putti,

      morte comune e de le corti vizio,

      67 infiammò contra me li animi tutti;

      e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,

      che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

      70 L’animo mio, per disdegnoso gusto,

      credendo col morir fuggir disdegno,

      ingiusto fece me contra me giusto.

      73 Per le nove radici d’esto legno

      vi giuro

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