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vedi poco!

      – Ti dico niente: parola d'onore! E niente neanche Marco.

      – Tanto meglio, allora! – conclude il Rosso. – Vi guiderò io. Ma bisognerebbe concertare qualche cosa. Mi sono morte quelle tre cavie ch'erano la mia ricchezza. Cerco da tanto tempo una bertuccia e non la trovo. Se tu non fossi tanto stupido, potresti almeno fare le veci delle cavie. Ho più di trecento pianete stampate proprio bene, per militari, ragazze da marito, giovani spose, vedove e vecchie. Tutto sta a sapere pescare giusto nelle caselline. Potresti imparare a trovare a tasto, subito, nella casella ch'io t'indicherei con qualche malizia combinata tra noi. Cieco come sei, farebbe effetto. Ma sempre Marco ci vuole. Tu, invece delle cavie; e Marco invece della bertuccia. Poeta; lo sai com'è? si mette a predicare che perfino i cani, oh, gli s'acculano davanti a sentire; noi mungiamo i signori villeggianti e sorteggiamo le pianete ai paesanelli. Più di questo non possiamo fare. Ti va?

      – Eh, – sospira Alfreduccio, alzando le spalle. – Se Marco volesse venire…

      – Mi secchi, – sbadiglia il Rosso, e si gratta con tutt'e due le mani la testa arruffata. – Ne riparleremo domani. Intanto, guarda: va' a prendermi la stampella che ho lasciato laggiù.

      – Dove? – domanda Alfreduccio senza voltarsi.

      – Laggiù! Va' rasente alla spalletta, e cerca a tasto; così impari. Guarda che c'è pure la bisaccia.

      Alfreduccio si muove, a testa alta, una mano sulla spalletta. Quand'è a un passo dalla stampella si ferma e domanda:

      – Ancora?

      – Ma costà, non vedi: ci sei! – gli grida il Rosso; poi scoppia a ridere; si dà una rincalcata al cappellaccio e, balzelloni, con quattro gambate lo raggiunge; gli prende la faccia tra le mani; gliela alza verso la luna e gli osserva da vicino gli occhi tumidi, orribili, sghignandogli sul muso:

      – Tu ci vedi, cane!

      Alfreduccio non si ribella: attende con la faccia volta alla luna che quello gli esamini ben bene gli occhi, poi domanda come un bambino:

      – Ci vedo?

      – Ma, sai? – dice allora il Rosso, lasciandolo, – dopo tutto, dovendo fare il cieco, è una fortuna.

      Due giorni dopo, per tempo, eccoli con Marco per lo stradone polveroso, il Rosso in mezzo, Alfreduccio a sinistra, Marco a destra; l'uno a braccetto e l'altro reggendo un lembo della giacca del Rosso.

      Marco, il Poeta, ha una dignitosa e serena aria da apostolo, col petto inondato da una solenne barba fluente, un po' brizzolata. La sua cecità non è orribile come quella d'Alfreduccio. Gli occhi gli si sono disseccati; le palpebre, murate. E va come beandosi dell'aria che gli venta sulla bella faccia di cera. Sa d'avere un dono prezioso, il dono della parola; e la vanità di farsi conoscere anche nei paesi vicini lo ha forse indotto ad accompagnarsi con quei due. (Bisogna ch'io supponga così, perché i due mendicanti della stampa so di certo che Marco non se li farebbe compagni per nessun'altra ragione.)

      Il Rosso è scaltro. Per entrargli in grazia, a un certo punto gli domanda:

      – Sei andato a scuola, tu Marco, da ragazzo?

      Marco accenna di sì col capo.

      – Anch'io, – vuol far sapere Alfreduccio. – Fino alla terza elementare.

      – Zitto tu, bestia! – gli dà sulla voce il Rosso. – Ti vuoi mettere col nostro Marco che mi figuro deve sapere anche il latino?

      Marco accenna di sì un'altra volta; poi stropiccia la fronte e dice con gravità:

      – Latino, italiano, storia e geografia, storia naturale e matematica. Arrivai fino alla terza del ginnasio.

      – Uh, e quasi quasi allora ti potevi far prete!

      – Sì, prete! Avrò avuto appena tredici anni quando ammalai d'occhi e mio padre mi levò dalle scuole per mandarmi dalla zia in città a curarmi.

      – Già, perché tu nasci bene, lo so,

      Gli scaltri però non sempre riescono a valersi a lungo della loro scaltrezza, tenendola nascosta; non resistono alla tentazione di scoprirla, specie quando li obblighi ad avvilirsi e colui su cui la esercitano si mostri soddisfatto del loro avvilimento.

      – È vero, – soggiunge infatti il Rosso, – che tuo padre era scrivano in un botteghino del lotto e che si metteva in tasca, dice, le poste dei gonzi che andavano a giocare? Io non ci credo.

      – Io, sì, – risponde secco secco Marco.

      – Ah sì? Ma faceva bene, sai? Benone! Vedendo tutto quel danaro sprecato, povero galantuomo, lui n'avrà avuto bisogno. Lo capisco. Sicché dunque accecasti in città?

      – Vuoi farmi parlare? – dice Marco. – In città, sì. Da quella mia zia, ch'era monaca di casa.

      – Che t'insegnò la Bibbia, è vero?

      – M'insegnò… La leggeva; l'imparai.

      – Sorella di tuo padre?

      – Sì. Me la ricordo appena. Tirava certi calci!

      – Calci?

      – Stentava a leggere; s'arrabbiava…

      – … e tirava calci?

      – Perché io le suggerivo le parole che lei stentava a leggere. Non voleva. Le voleva leggere da sé. Ero già accecato. Mi dicevano di no; che m'avrebbero fatto l'operazione, quando… non so, dicevano che si doveva maturare. E aspettavo. Ma mi annojavo lì in casa della zia: volevo ritornare al mio paese, e piangevo. Zia alla fine si seccò e mi disse che al paese non avevo più nessuno, perché mio padre, perduto l'impiego, era partito per l'America. Per l'America? E come? Mi avevano abbandonato là, solo, in casa della zia? Ma seppi poi che cosa significava quell'America. L'altro mondo. Me lo disse la serva, quando mi morì anche la zia. Già due volte avevo cambiato casa, stando con lei e non sapevo dove mi fossi ridotto ad abitare. Vedevo ancora come in sogno casa mia, e mi credevo vestito come quando mio padre m'accompagnava a scuola. Ma la serva, due giorni dopo la morte di zia, mi prese per mano, mi fece scendere una scala che non finiva mai e mi condusse per istrada. Lì si mise a dir forte, mica a me, certe parole che io in prima non compresi: «Fate la carità a questo povero orfanello cieco, abbandonato, solo al mondo!». Mi voltai: «Ma che dici?». E lei: «Zitto bello, di' con me, e stendi la manina, così». La manina? Me la cacciai subito dietro come se avesse voluto farmi toccare il fuoco.

      Alfreduccio, commosso, ha un brivido alla schiena che lo fa ridere:

      – Allegri!

      – Allegri, mannaggia Macometto! – gli fa eco il Rosso. – Dopo tutto, la professione t'è andata sempre bene, no?

      – Benone, figurati! – esclama Marco. – Ma sai che potevo entrare in un ospizio, io, dove avrei potuto imparare qualche arte o mestiere da guadagnare: sonare il violino o il flauto, per esempio? Quanto mi sarebbe piaciuto il flauto! Ma anche gli studii avrei potuto seguitare. Quella invece mi sfruttò; mi tenne per più di dieci anni con sé… Quando ci penso!

      – Non ci pensare più! – gli consiglia il Rosso. – Pensa piuttosto a svagarti in questi giorni, che ne hai bisogno. Mi sembri un Cristo di cera. Vedessi che bella giornata e che belle campagne!

      – Ormai! – sospira Marco, scrollando le spalle. – Del resto, non t illudere, sai? Non c'è niente di niente, neanche per te.

      – Come non c'è niente?

      – Niente. Gli occhi, caro mio! Qua siamo due ciechi e mezzo. Metti che anche tu sii cieco tutto, e dove se ne va la tua bella giornata e la tua bella campagna?

      Il Rosso si ferma un pezzetto a mirarlo, come per vedere se dica sul serio; poi scoppia a ridere,

      – Oh, non ti sciupare! – gli dice. – Con me non serve, sai? Aspetta a fare il poeta quando saremo in mezzo alla gente.

      – Ignorante! – esclama Marco. – Che c'entra il poeta? Fisica, caro mio.

      – Fisica? Non ne mangio.

      – Le

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