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via, lasciami le gambe! Mi hai fatto ridere, – dice allora il Rosso. – Alzati e andiamo: finiamola! Se no, a Sopri ci arriveremo per l'anno santo. Andiamo, andiamo, E tieni qua il coltello, che ti può servire per il pane. Io ho fatto per ischerzo, Marco. Tu dici chiedere l'elemosina, come se questa non fosse anche la mia professione… Ma scusa, quando sono per le campagne, che ho fame e nessuno mi vede; se vedo una gallina, scusa, mica posso andare a chiederle: «Fammi un ovetto, cocca bella, per carità!». Non me lo fa. E allora io me la prendo, me l'arrosto e me la mangio. Tu dici che rubo; io dico che ho fame. Qua siamo in campagna, caro mio. Gli uccellini fanno così, i topi fanno così, le formiche fanno così… Creaturine di Dio, innocenti. Bisogna allargare le idee. E sta' pur sicuro che non prendo per arricchire, ché allora sì sarei ladro svergognato: prendo per mangiare; e chi muore muore. Sazio, non tocco neppure una mosca. Prova ne sia, che ho una pulce adesso che mi sta a succhiare una gamba. La lascio succhiare. Quantunque, di' un po', ci può essere bestia più stupida di questa pulce? Succhiare il sangue a me, il sangue mio che non può essere dolce, né puro, né nutritivo, e lasciare in pace le gambe dei signori!

      Alfreduccio scoppia a ridere e fa ridere anche Marco che non ne ha nessuna voglia. Il sangue gli s'è tutto rimescolato; si sente come un gran fuoco alla testa; stenta a respirare.

      Il Rosso se n'accorge e si mette in apprensione.

      – Bisogna che tu ti riposi un poco, – gli dice. – Lascia fare a me. Lassù all'ombra.

      Ajuta, prima l'uno e poi l'altro, a montare sul ciglio dello stradone e li pone a sedere all'ombra d'un grande platano; siede anche lui e dice all'orecchio d'Alfreduccio:

      – Ho paura che non regga al cammino.

      – Ho paura anch'io, – fa Alfreduccio. – Toccagli la mano. Scotta.

      Il Rosso ha uno scatto d'ira:

      – E che vorresti fare?

      – Mah! Io direi…

      – Di tornare indietro? Bel negozio ho fatto io a mettermi con vojaltri due! Lascialo riposare; vedrai che gli passerà tutto. Domando e dico che ci state a fare su la faccia della terra l'uno e l'altro! Neanche buoni a fare tre miglia a piedi! E ammazzatevi! Che vita è la vostra! Guarda che faccia, oh! Guarda che occhi! Fortuna che non ti vedi, caro mio!

      Alfreduccio ascolta con un sorriso da scemo sulle labbra, appoggiato al tronco dell'albero.

      – Ah tu ridi?

      – Eh, – risponde Alfreduccio, – che vuoi che faccia?

      – Ti vorrei mettere un fiore in bocca, – riprende il Rosso, – lavare, pettinare e vestire come un signore: poi condurti per le fiere: «Guardate, signori, che belle cose fa il buon Dio!». Chiudi codesta bocca, mannaggia! o te la muro con un pugno di terra! Non te la posso vedere così aperta.

      Alfreduccio chiude subito la bocca; e allora il Rosso ripiglia con altro tono:

      – Se arriveremo a Sopri, vedrai che raccoglieremo bene. Avendo poi qualche cosa da parte, non saremo forzati a trottar sempre. Potremo prendercela anche comoda e far davvero la villeggiatura anche noi. Sopri è un bel paese, sai? grande; e ci conosco parecchia gente, uomini e anche… anche donne, sì.

      Sghignazza e soggiunge:

      – Donne, tu… niente?

      Alfreduccio gli mostra la faccia squallida, con la bocca di nuovo aperta a un ineffabile sorriso:

      – Mai, – dice.

      – E come hai fatto? Non ci hai mai pensato?

      – Sì, sempre, anzi. Ma…

      – Capisco. Ma i ciechi, sai (chiudi la bocca!), i ciechi con le donne oneste possono aver fortuna. Guarda, scommetterei che Marco, bell'uomo, avrà avuto le sue avventure. Perché la donna, capisci? tutto sta che possa farlo senza esser veduta. Un cieco, che non può sapere né dire domani con chi sia stato, è proprio quello che ci vuole per lei. E io so di tanti ciechi che sono ricercati e mandati a prendere fino a casa da certe vecchie… Ah, ma non brutti come te, però. Di', ti piacerebbe?

      – Eh, – fa di nuovo Alfreduccio, stringendosi nelle spalle.

      – Ebbene, a Sopri, se ci arriveremo, – promette il Rosso. – Ma tu persuadi Marco a seguirci.

      – Sì sì, non dubitare, – s'affretta a dire Alfreduccio, con tale impegno che il Rosso scoppia a ridere forte.

      Alla risata Marco, che s'è steso tutto per terra e addormentato, si sveglia di soprassalto e domanda spaventato:

      – Chi è?

      Il Rosso allunga una mano; gli tocca la fronte, e fa una smusata.

      – Stai lì, stai lì, – gli dice, – dormi tranquillo.

      Poi, volgendosi ad Alfreduccio:

      – Ha la febbre per davvero, oh! e forte. Sai che faccio? Ti lascio qua di guardia e vado a vedere se mi riesce far cuocere in qualche posto la gallina. So bene come sono i galantuomini: la gallina no, non se la mangerà perché l'ho rubata; ma inzupperà certo il pane nel brodo che ne caveremo. Aspettami. Torno presto. E pensa intanto alle donne, tu; così starai allegro.

      Alfreduccio riapre la bocca al suo riso da scemo. Il Rosso, scendendo, si volta a guardarlo, per un'idea che gli balena: strappa uno dei papaveri che avvampano al sole, lì sul ciglio, e va a ficcarne il gambo amaro in bocca ad Alfreduccio che subito stolza, facendo boccacce e sputando.

      – Sciocco, sta' fermo! È un fiore. Apri la bocca. Ti voglio lasciare così, come uno sposino.

      Torna a sghignazzare, e se ne va.

      Alfreduccio resta fermo un pezzo con quel papavero in bocca. Ode dallo stradone ancora una risata del Rosso. Poi, più nulla.

      – Marco!

      Gli risponde un lamento.

      – Ti senti molto male?

      E Marco:

      – Passa un carro. Buttamici sopra.

      – Un carro? – fa Alfreduccio, tendendo l'orecchio. – No, sai. Non passa nessun carro. Vorresti tornare indietro? Appena verrà il Rosso, glielo diremo. Siamo nelle sue mani.

      Marco scuote la testa su la terra. L'altro attende ancora un poco; poi, non sentendosi dire più nulla, rimane zitto anche lui. Tutt'intorno è un gran silenzio.

      A un tratto Marco ha un sussulto e ritrae la mano dalla mano del compagno.

      – Ch'è stato?

      – Non so. M'è passata qualche cosa su la faccia.

      – Foglia?

      – Non so. Dormivo.

      – Dormi, dormi. Ti farà bene.

      Una voce lontana, di donna che passa cantando. Il vuoto s'allarga intorno ad Alfreduccio, di quanto è lontana quella voce. Con tutta l'anima nell'orecchio, egli cerca d'avvicinarsi a quella voce. Ma la voce tutt'a un tratto si spegne. E Alfreduccio rimane in ansia, costernato, non potendo più indovinare se quella donna si avvicini o si allontani. Si rimette in bocca il fiore.

      – Le donne…

      (Forse è meglio finire qui. Non val la pena stare ancora a far spreco di fantasia su questa vecchia stampa di maniera.)

      La paura del sonno

      I Florindi e i Lindori, dalle teste di creta dipinte di fresco, appesi in fila ad asciugare su uno dei cinque cordini di ferro tesi da una parete all'altra nella penombra della stanzaccia, che aveva sì due finestroni, ma più con impannate che con vetri, chiamavano la moglie del fabbricante di burattini, la quale si era appisolata con l'ago sospeso in una mano che pian pianino le si abbassava in grembo, davanti a un gran canestro tutto pieno di berrettini, di brachette, di giubboncini variopinti.

      – Parona bela!

      E l'appisolata si scoteva di soprassalto; si stropicciava gli occhi; si rimetteva a cucire. Uno – due – tre punti e, a poco a poco, di nuovo, ecco le

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