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disse Don Lollò. – Passi la tua parola, e dammi un'onza e trentatré.

      – Che? – fece Zi' Dima, come se non avesse inteso.

      – Rompo la giara per farti uscire, – rispose Don Lollò – e tu, dice l'avvocato, me la paghi per quanto l'hai stimata: un'onza e trentatré.

      – Io pagare? – sghignazzò Zi' Dima. – Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.

      E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l'accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.

      Don Lollò ci restò brutto. Quest'altro caso, che Zi' Dima ora non volesse più uscire dalla giara, nè lui nè l'avvocato l'avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: «La mula», ma pensò che era già sera.

      – Ah, sì – disse. – Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l'uso della giara.

      Zi' Dima cacciò prima fuori un'altra boccata di fumo, poi rispose placido:

      – Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria!

      Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.

      – Vede che mastice? – gli disse Zi' Dima.

      – Pezzo da galera! – ruggì allora lo Zirafa. – Chi l'ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!

      E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi' Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all'aperto, su l'aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c'era una luna che pareva fosse raggiornato.

      A una cert'ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d'inferno. S'affacciò a un balcone della cascina, e vide su l'aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi' Dima, là dentro, cantava a squarciagola.

      Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

      E la vinse Zi' Dima.

      La cattura

      Il Guarnotta seguiva col corpo ciondolante l'andatura dell'asinello, come se camminasse anche lui; e per poco veramente le gambe, coi piedi fuori delle staffe, non gli strisciavano sulla polvere dello stradone.

      Ritornava, come tutti i giorni a quell'ora, dal suo podere quasi affacciato sul mare, all'orlo dell'altipiano. Più stanca e più triste di lui, la vecchia asinella s'affannava da un pezzo a superare le ultime pettate di quello stradone interminabile, tutto a volte e risvolte, attorno al colle, in cima al quale pareva s'addossassero fitte, una sull'altra, le decrepite case della cittaduzza.

      A quell'ora i contadini erano ritornati tutti dalla campagna; lo stradone era deserto. Se qualcuno ancora se ne incontrava, il Guarnotta era sicuro di riceverne il saluto. Perché tutti, grazie a Dio, lo rispettavano.

      Deserto ormai come quello stradone era ai suoi occhi tutto il mondo; e di cenere come quell'aria della prima sera, la sua vita. I rami degli alberi sporgenti senza foglie dai muretti di cinta screpolati, le alte siepi di fichi d'India polverose e, qua e là, i mucchi di brecciale che nessuno pensava di stendere su quello stradone tutto solchi e fosse, se il Guarnotta li guardava, in quella loro immobilità e in quel silenzio e in quell'abbandono, gli parevano oppressi come lui da una vana pena infinita. E a crescere questo senso di vanità, come se il silenzio si fosse fatto polvere, non si sentiva neanche il rumore dei quattro zoccoli dell'asinella.

      Quanta di quella polvere dello stradone non si portava a casa ogni sera il Guarnotta! La moglie, tenendo la giacca sospesa e discosta, appena egli se la levava, la mostrava in giro alle seggiole, all'armadio, al letto, al cassettone, come per darsi uno sfogo:

      – Guardate, guardate qua! Ci si può scrivere sopra, col dito.

      Si fosse lasciato persuadere almeno a non portare l'abito nero, di panno, per la campagna! Gliene aveva ordinati tre – apposta, – tre – di fustagno.

      In maniche di camicia, il Guarnotta, quelle tre dita tozze che la moglie veniva a cacciargli, nel gesto rabbioso, quasi negli occhi, gliele avrebbe volentieri addentate. Cane pacifico, si contentava di lanciarle di traverso un'occhiataccia e la lasciava cantare. Quindici anni addietro, alla morte dell'unico figlio, aveva giurato d'andar vestito sempre di nero. Dunque…

      – Ma anche per la campagna? Ti faccio mettere il lutto al braccio negli abiti di fustagno. E basterebbe la cravatta nera, ormai, dopo quindici anni!

      La lasciava cantare. Non se ne stava forse tutto il santo giorno in quel suo podere al mare? In paese, non si faceva più vedere da nessuno, da anni. – Dunque…

      – Che dunque?

      Ma dunque, se non lo portava in campagna, dove lo avrebbe portato il lutto per il figliuolo? – Corpo di Dio, riflettere un poco almeno, prima d'aprir bocca e lasciare andare. – Nel cuore, sì: grazie tante! E che non lo portava nel cuore? Ma voleva si vedesse anche fuori… – Che lo vedessero gli alberi, già! o gli uccellini dell'aria; perché, infatti, occhi per vederselo addosso, lui, non ne aveva. E perché poi brontolava tanto la moglie? Doveva forse batterlo e spazzolarlo lei, quell'abito, ogni sera? C'erano le serve. Tre, per due persone sole. Economia? Un abito nero all'anno: ottanta, novanta lire. Eh via! Avrebbe dovuto capire, che non le conveniva far tanti discorsi. Seconda moglie! E il figlio morto era del primo letto! Senz'altri parenti, neppur lontani, alla sua morte, tutto il suo (che non era poco) sarebbe andato a lei e ai suoi nipoti. Zitta, dunque: almeno per prudenza… Ma già, sì! se avesse capito questo, non sarebbe stata quella buona donna che era…

      Ed ecco perché lui se ne stava tutto il giorno in campagna. Solo, tra gli alberi e con la distesa sterminata del mare sotto gli occhi, come da un'infinita lontananza, nel fruscio lungo e lieve di quegli alberi, nel borboglio cupo e lento di quel mare s'era abituato a sentire la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita.

      Era giunto ormai a meno d'un chilometro dal paese. Dalla chiesetta dell'Addolorata su in cima gli arrivavano lenti e blandi i rintocchi dell'Avemaria, allorché, d'improvviso, a una brusca svoltata dello stradone:

      – Faccia a terra!

      E dall'ombra si vide saltare addosso tre appostati, con la faccia bendata, armati di fucile. Uno abbrancò l'asina per la cavezza; gli altri due, in un batter d'occhio, lo strapparono di sella, giù a terra; e mentre uno con un ginocchio su le gambe gli legava i polsi, l'altro gli annodava dietro la nuca un fazzoletto ripiegato a fascia, passato sopra gli occhi.

      Ebbe appena il tempo di dire:

      – Figliuoli, a me?

      Fu tirato su, spinto, strappato, trascinato di furia per le braccia, fuori dello stradone, giù per la costa petrosa, verso la vallata.

      – Figliuoli…

      – Zitto, o sei morto!

      Più delle spinte e degli strappi, l'ansito, l'ansito di quei tre per la violenza che commettevano, gl'incuteva terrore. Per avere quell'ansito di belve, doveva esser tremendo ciò che s'erano proposto di fare sopra di lui.

      Ma ucciderlo, almeno subito, forse non volevano. Se per mandato o per vendetta, lo avrebbero ucciso là, su lo stradone, dall'ombra dove si tenevano appostati. Dunque, lo catturavano, per ricatto.

      – Figliuoli…

      Stringendogli più forte le braccia e

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