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giù, poi su, e avanti, e indietro; poi giù di nuovo, e poi di nuovo su e su e su. Dove lo trascinavano?

      Nel subbuglio di pensieri e di sentimenti, tra il guizzare d'immagini sinistre e l'affanno di quella corsa cieca, a sbalzi, a spintoni, tra sassi, sterpi (che stranezza!) i lumi, i primi lumi accesi nella cittaduzza ancora illuminata a petrolio, su in cima al colle – lumi delle case, lumi delle strade – come li aveva intraveduti prima che lo assaltassero e come tante volte, ritornando dal podere sempre a quell'ora li aveva intraveduti, ecco, nella strettura di quella benda che gli schiacciava gli occhi, gli apparivano (che stranezza!) precisi, proprio come se li avesse davanti e avesse gli occhi liberi. Andava, così trascinato, strappato, incespicando, con tanto terrore dentro, e se li portava, quei lumetti placidi e tristi, davanti, con sé, con tutto il colle, con tutta la cittaduzza situata lassù, dove nessuno sapeva la violenza che in quel momento si faceva a lui, e tutti attendevano quieti e sicuri ai loro casi consueti.

      A un certo punto avvertì anche l'affrettato zoccolare della sua asinella.

      – Ah!

      Trascinavano via anche la sua vecchia asinella stanca. Ma che ne capiva, povera bestiola? Avvertiva forse una furia insolita, un'insolita violenza, ma andava dove la portavano, senza capir nulla. Se si fossero fermati un momento, se l'avessero lasciato parlare, avrebbe detto loro con calma, ch'era pronto a dare tutto quello che volevano. Poco più gli restava da vivere, e non valeva proprio la pena per un po' di danaro – di quel danaro che non gli dava più nessuna gioja – passare un momento come quello.

      – Figliuoli…

      – Zitto, cammina!

      – Ma non ne posso più! Perché mi fate questo'? Sono pronto…

      – Zitto! Parleremo poi… Cammina!

      Lo fecero camminare, così, un'eternità. A un certo punto, fu tanta la stanchezza, tanto lo stordimento di quel fazzoletto che gli serrava la testa, che si sentì mancare e non comprese più nulla.

      Si ritrovò, la mattina appresso, in una grotta bassa, come disfatto in un tanfo di mucido che pareva spirasse dallo stesso squallore della prima luce del giorno.

      S'insinuava livida, quella luce, appena appena, di tra gli anfratti cretosi della grotta e gli alleviava l'incubo delle violenze sofferte, che ora gli apparivano come sognate: violenze cieche, da bruti, al suo corpo che non si reggeva più, caricato su le spalle ora dell'uno ora dell'altro, buttato a terra e trascinato o sollevato per le mani e per i piedi.

      Dov'era adesso'?

      Tese l'orecchio. Gli parve che fosse fuori un silenzio d'altura. E per un momento vi si sentì come sospeso. Ma non poteva muoversi. Giaceva per terra come una bestia morta, mani e piedi legati. E le membra gli pesavano quasi gli fossero diventate di piombo; e anche la testa. Era ferito? Lo avevano lasciato lì per morto?

      No: ecco, confabulavano fuori della grotta. La sua sorte non era dunque decisa. Ma il ricordo di ciò che gli era accaduto gli si rappresentava ora, non già come d'una sciagura che gl'incombesse tuttavia e che gli suscitasse dentro qualche moto per tentare di liberarsene. No. Sapeva di non potere e quasi non voleva. La sciagura era compiuta, come avvenuta da gran tempo, quasi in un'altra vita, in una vita che forse gli sarebbe premuto di salvare, quando ancora le membra non gli pesavano così e non gli doleva tanto la testa. Ora non gl'importava più di nulla. Quella vita – pur essa miserabile – l'aveva lasciata laggiù, lontano lontano, dove lo avevano catturato: e qua ora c'era questo silenzio, così alto e vano, così smemorato.

      Quand'anche lo avessero lasciato andare, non avrebbe avuto più la forza, fors'anche neppure il desiderio di tornare laggiù a riprendersela, quella sua vita.

      Ma no, ecco: una gran tenerezza, di pietà per sé, gli risorse a un tratto e gli s'arruffò tutta dentro come in un brivido d'orrore, appena vide entrare uno di quei tre, carponi nella grotta, col viso nascosto da un fazzoletto rosso, forato all'altezza degli occhi. Gli guardò subito le mani. No, nessun'arma. Una matita nuova, di quelle da un soldo, non ancora temperata. E nell'altra mano, per terra, un rozzo foglietto di carta da lettere tutto brancicato, con la busta in mezzo. Alleggerito, senza volerlo, sorrise; mentre nella grotta entravano gli altri due, anch'essi carponi e bendati. Uno gli s'appressò e gli sciolse le mani soltanto. Il primo disse:

      – Giudizio! Scrivete!

      Gli parve di riconoscerlo alla voce. Ma sì, Manuzza; detto così perché aveva un braccio più corto dell'altro. Oh, e allora… Ma era proprio lui? Gli guardò il braccio manco. Lui, sì. E certo anche gli altri due avrebbe riconosciuti subito, se si fossero tolta la benda. Conosceva tutta la cittadinanza. Disse allora:

      – Io, giudizio? Giudizio voi, figliuoli! A chi volete che scriva? Con che debbo scrivere? con questa?

      E mostrò la matita.

      – Perché? Non è matita?

      – Matita, sì. Ma voi non sapete neppure come s'adopera.

      – Perché?

      – Ma bisognerà prima temperarla.

      – Temperarla?

      – Con un temperino, già, qua in punta…

      – Temperino, niente!

      E Manuzza ripeté:

      – Giudizio! giudizio, sacramento!

      – Giudizio, sì, Manuzza mio…

      – Ah, – gridò questi. – M'avete riconosciuto?

      – Abbi pazienza, ti nascondi la faccia e lasci scoperto il braccio? Levati codesto fazzoletto e guardami negli occhi. Fai questo, a me?

      – Senza tante chiacchiere, – gridò Manuzza, strappandosi con ira il fazzoletto dalla faccia. – V'ho detto giudizio! Scrivete, o v'ammazzo!

      – Ma sì, sono pronto, – si rimise il Guarnotta. – Quand'avrete temperato la matita. Però, se mi lasciate dire… Volete danari, è vero, figliuoli? Quanto?

      – Tre mila onze!

      – Tre mila? Non volete poco.

      – Voi ce l'avete! Non facciamo storie!

      – Tre mila onze?

      – Più! più!

      – Anche più, sì. Ma non a casa, in contanti. Dovrei vendere case, terre. E vi pare che si possa, così, da un giorno all'altro, e senza me?

      – Vuol dire che se le faranno prestare!

      – Chi?

      – Vostra moglie e i vostri nipoti!

      Il Guarnotta sorrise amaramente e provò a rizzarsi su un gomito.

      – Volevo dirvi questo, appunto, – rispose. – Figliuoli miei, avete sbagliato. Contate su mia moglie e sui suoi nipoti? Se volete ammazzarmi, è un conto: sono qua: ammazzatemi, e non se ne parli più. Ma se volete danari, non potete averli che da me, e a patto di lasciarmi andare a casa.

      – Che dite? a casa? Voi? Fossimo matti! Scherzate!

      – E allora… – sospirò il Guarnotta.

      Manuzza strappò di mano rabbiosamente il foglietto da lettere al compagno e ripeté:

      – Senza tante chiacchiere, v'ho detto, scrivete! La matita… Ah già, bisogna temperarla… Come si tempera?

      Il Guarnotta spiegò come; e i tre allora, dopo essersi guardati negli occhi, uscirono dalla grotta. Nel vederli uscire, così carponi, come tre bestie, non poté fare a meno di sorridere ancora una volta, il Guarnotta. Pensò che ora di là si sarebbero messi in tre a temperare quella matita, e che forse, a furia di potarla come un ramo d'albero, non ne sarebbero venuti a capo. Già, ma lui ne sorrideva, e forse la sua vita in quel punto dipendeva dalla ridicola difficoltà che quei tre incontravano in quell'operazione per loro nuova: forse, stizziti di vedersi mancare in mano la matita a pezzo a pezzo, sarebbero rientrati a fargli la prova che se i loro coltelli non erano buoni da temperare una matita, erano però buoni da scannarlo. E aveva fatto male, un errore imperdonabile aveva

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