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pluralismo dello Stato tedesco

      La Costituzione tedesca dedica a questo diritto l’art. 4: esso garantisce la libertà religiosa come libertà di fede e come libertà di pratica religiosa. Il credente, dunque, non solo ha diritto a credere alla propria fede, ad esempio all’interno delle proprie quattro mura di casa. Ma, oltre a questo, ha anche il diritto di praticare la propria fede, ad esempio costruendo un luogo di culto oppure pregando pubblicamente (ted.: Religionsausübungsfreiheit).

      Ecco perché la Germania è uno Stato pluralistico. Vale a dire: uno Stato che non riconosce una sola religione (ad es. quella cattolica) come religione di Stato (mentre gli altri culti vengono magari soltanto tollerati).

      Oggi è in particolare la libertà di culto ad essere sempre più al centro dell’attenzione, in società multietniche e, più di un tempo, multi-religiose. Essa rappresenta un terreno di prova tutt’altro che agevole per il pluralismo religioso: si pensi ad aspetti come – appunto – la costruzione di luoghi di culto, al riconoscimento di giorni di astensione dal lavoro diversi dalla domenica, al diritto di indossare in luoghi pubblici segni religiosi distintivi come il velo islamico e così via. Se, dunque, una comunità islamica intende costruire una moschea, non si può negare ai credenti questo diritto. Il fatto che magari in uno Stato islamico la costruzione di una chiesa o – in generale – la professione della religione cattolica non viene tutelata, non c’entra nulla: noi abbiamo la nostra Costituzione, e questa va applicata. Gli altri Stati hanno la loro Costituzione. Sarebbe assurdo cambiare il proprio ordine giuridico soltanto perché in un altro Stato i diritti dell’uomo non vengono rispettati a nostro piacimento. Vale a dire: soltanto perché in uno Stato X vige la pena di morte per chi è omosessuale oppure commette adulterio, non pensiamo minimamente – e giustamente – di applicare nel nostro ordine giuridico una simile sanzione. Siamo noi gli artefici del nostro ordine costitutivo e, appunto, non gli altri.

       Sinagoghe, chiese e moschee: siamo tutti una religione

      L’attacco, fortunatamente non riuscito, da parte del 27enne Stephan Balliet il 9 ottobre 2019 ad una sinagoga nella città di Halle, ha scosso, giustamente, l’opinione pubblica tedesca. Il ministro degl’Interni Horst Seehofer ha dovuto ammettere che le misure di sicurezza relative ai luoghi di culto in Germania non sono all’altezza del pericolo terrorismo di matrice neonazista27. Difatti, solo per puro caso l’attacco non si è trasformato in una vera e propria strage, considerando che all’interno della sinagoga si trovavano una settantina di persone: è stata la porta, blindata, a resistere.

      Tutto ciò, tuttavia, non deve spostare l’attenzione dal problema di fondo, vale a dire il radicalismo di destra che, quando diventa azione, spesso si trasforma in atto terroristico. In questo contesto rientra il ruolo e la funzione della Costituzione tedesca. La legge fondamentale, il Grundgesetz, non ha dubbi: l’art. 4 ci dice che la “libertà di opinione, di coscienza e la libertà di confessione religiosa e ideologica sono inviolabili”. E non solo: “È garantito il libero esercizio del culto” (comma 2 di questo fondamentale articolo).

      Eppure, nonostante la libertà di confessione religiosa sia considerata inviolabile, alcuni politici tedeschi, specie quelli conservatori dell’Afd, ma anche non di rado quelli cristiano-democratici e cristiano-sociali, sostengono ripetutamente che la confessione possa essere un limite nel processo di integrazione degli stranieri. Integrazione e religione vengono visti come due elementi che si escludono e non elementi che convergono. Assurdo, se si considera che la Costituzione tedesca, che ogni politico tedesco dovrebbe conoscere, non prevede alcun limite alla libertà di confessione.

      Esemplare è il caso di Fereshta Ludin: Ludin, una donna musulmana di origini afgane, è la più giovane di cinque figli. Sua madre, negli anni 50, è stata una delle prime donne in Afghanistan a studiare. Suo padre era un ingegnere, ha lavorato come consulente e successivamente come ministro del governo afghano. Quando Fereshta Ludin aveva quattro anni, suo padre divenne ambasciatore a Bonn. Dopo che le truppe sovietiche invasero l'Afghanistan nel 1979, la famiglia fu costretta all’esilio e fuggì in Arabia Saudita. Dopo la morte di suo padre, la famiglia si trasferì in Germania nel 1986 e fece domanda di asilo. Dopo la laurea Ludin ha completato un corso di insegnamento in inglese, tedesco e studi comunitari. Nel 1995 Ludin ricevette la cittadinanza tedesca. Dopo il tirocinio come insegnante (Ludin aveva concluso gli studi con un voto di 1,3), Fereshta Ludin tentò di diventare insegnante presso una scuola statale nel Baden-Württemberg. L’amministrazione scolastica, tuttavia, rifiutò di assumerla perché Ludin portava il velo. Il velo, secondo l’ Oberschulamt di Stoccarda, sarebbe un simbolo politico-religioso e si scontra con la libertà di religione degli alunni ed il principio di neutralità dello Stato. Invanamente Ludin non mollò e si appellò alla libertà di religione davanti ai tribunali amministrativi: ma non c’era nulla da fare! Anche la Corte federale amministrativa non accolse la richiesta della giovane donna musulmana. Solo nel settembre 2003, grazie ad una storica sentenza della Corte Costituzionale28, Ludin riuscì a far valere, in fondo, ciò che è scritto nell’art. 4 del Grundgesetz. Una sentenza, nella quale i giudici di Karlsruhe hanno puntato il dito contro la decisione dell’amministrazione scolastica, che “senza nessun fondamento giuridico” avrebbero violato la libertà della giovane insegnante. La neutralità dello Stato non può fungere da giustificante di una violazione della libertà di religione.

      Ma perché l’art. 4 è “inviolabile”? E qui ritorniamo all’inizio di questo libro: i padri della Costituzione avevano in mente soprattutto il genocidio ai danni di circa 6 milioni di ebrei, le uccisioni immotivate di tanti preti, anche cattolici e lo sterminio di 500mila rom e sinti nel Terzo Reich. E la Costituzione va oltre al solo riconoscimento delle religioni: lo Stato tedesco deve fare in modo che il culto religioso possa essere praticato. Nessuna comunità religiosa deve temere alcuna forma di violenza. Questo è quello che vuole la Costituzione tedesca, un vero e proprio monito ai politici che ancora sembrano dormirci sopra.

       La libertà di manifestazione del pensiero (art. 5 Grundgesetz)

      L’art. 5 della Costituzione tedesca – come l’art. 21 di quella italiana – riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (ted.: Meinungsfreiheit) con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Lo sviluppo storico di questa libertà fondamentale di ogni sistema democratico ha coinciso con l’affermarsi dello Stato liberale. Già nella Dichiarazione dei diritti del 1789 viene definita la libertà di pensiero come uno dei più preziosi diritti degli uomini.

      Se ogni uomo è diverso dall’altro, vuol dire che ognuno di noi percepisce la realtà in maniera diversa. Per me il bicchiere può essere mezzo pieno e per un mio amico, invece, lo stesso e identico bicchiere può essere mezzo vuoto. Potremmo stare ore e ore a discutere: il punto di vista non cambia e nessuno può definire la verità assoluta, proprio perché questa non esiste. Quel che esiste, tutto al più, può essere un’idea di verità assoluta. Ma nessuno ha il diritto di imporre agli altri la sua idea di verità.

      Già Socrate, il padre del razionalismo, sosteneva che nessuno può dire con certezza di sapere. Come afferma anche il filosofo tedesco Jürgen Habermas, alla verità ci si può avvicinare solo attraverso il confronto dialettico di verità relative29. Il confronto, tuttavia, esige un sistema che accetta le regole del dibattito: non esiste, infatti, un confronto senza l’accettanza dell’altro. “Mettersi nei panni degli altri” vuol dire accettare non solo le regole della relatività dei punti di vista, ma soprattutto accettare l’altro.

      Ecco perché in una democrazia il dibattito è una colonna portante della cultura politica: il dibattito permette il confronto delle idee. E solo il dibattito porta al miglioramento dello status quo e, a lunga portata, alla correzione di errori immanenti del sistema stesso.

      Molti si lamentano dei politici sostenendo che “debbano discutere di meno e agire di più”. Il problema in politica nasce, però, proprio quando i politici non discutono più, quando il dibattito diventa una farsa e i politici che si confrontano non si accettano a vicenda come concorrenti in un sistema democratico, ma si considerano rispettivamente superiori all’avversario. Il politico che agisce e non discute non è un politico democratico, ma semmai uno sceriffo che in un sistema che mette al proprio

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