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quello di cancellare la parola “razza” oppure sostituirla con un altro sostantivo (ad es. etnia). Quel che serve, piuttosto, è una netta presa di posizione da parte di tutti – soprattutto da parte degli schieramenti politici – contro ogni forma di razzismo, iniziando dalle scuole. A cosa serve eliminare la parola “razza” se poi anche gli stessi politici non mandano i loro figli nelle scuole con arabi e turchi, ma piuttosto in quelle dove trovano la loro stessa etnia, magari in istituti privati che costano una marea di soldi? A cosa serve eliminare la parola “razza” se poi nelle scuole non si parla del principio fondamentale di ogni costituzione democratica, il principio di eguaglianza?

      La differenza ontologica tra eguaglianza e libertà sta nel fatto, purtroppo, che la libertà è una condizione naturale, uno status che ognuno di noi può pensare ed intuire senza una chiave di lettura specifica, senza una riflessione basata su una visione ideologica del mondo. L’eguaglianza, invece, è un’idea che dev’essere interiorizzata, pensata e ripensata, riflettuta e, infine, rispettata, giorno per giorno, in ogni situazione della vita, sia privata che professionale. A differenza della libertà, l’eguaglianza è un principio estetico, ricavato – künstlich, direbbero i tedeschi. In quanto individui siamo tutti liberi, ma solo in quanto ogni uomo ha pari dignità siamo tutti uguali. L’invenzione della dignità ha reso possibile l’ascesa dell’uguaglianza. La natura non ci ha fatto identici, fortunatamente, ma siamo simili e, dunque, uguali grazie ad una straordinaria idea politica che – dopo tante lotte – si è trasformata in un concetto giuridico, per l’appunto: nel principio di eguaglianza.

      Solo nelle esigenze e necessità naturali gli uomini sono uguali, ma non nei desideri e nei sogni: ecco perché il fatidico discorso di Martin Luther King, nell’ormai lontano 1963 a Washington, davanti a 200mila persone, inizia con “I have a dream” e non con “We have a dream”. La tragedia del razzismo non si manifesta, dunque, nel fatto che esiste la parola “razza”, ma nell’assurda e triste constatazione che non tutti, ascoltando la voce vibrante da baritono di Luther King, si commuovono nell’ascoltare il suo disperato appello di speranza che – nonostante gli anni passati – non ha perso un solo grammo di attualità.

      La proposta dei Verdi, almeno finora, non è stata attuata. E la Große Koalition ha fatto intuire che la Costituzione, almeno durante la legislatura in corso, non verrá modificata.

       La parità tra uomo e donna in Germania

      Era l’ormai lontano 3 dicembre 1948, il giorno in cui Elisabeth Selbert, una delle pochissime donne che facevano parte dell’Assemblea Costituente tedesca, dopo aver perso per la seconda volta la votazione per un diritto di parità tra uomo e donna nella nuova Costituzione della nascente Germania di Konrad Adenauer, si alzò improvvisamente e, con i pugni chiusi e i denti stretti, minacciò di mobilizzare migliaia di donne al di fuori del consiglio parlamentare, pur di raggiungere quello che oggi è un diritto sacrosanto.

      E lei sapeva di cosa stava parlando: la Selbert era a Francoforte sul Meno una dei pochi avvocati donne che poteva esercitare la sua professione. Alle donne, da parte del Führer, era stato vietato di fare l’avvocato. Suo marito, un esponente socialdemocratico, fu recluso in un campo di lavoro a causa della sua militanza politica e lei dovette occuparsi di sfamare la sua famiglia, da sola e contro la volontà dei nazionalsocialisti, che la volevano radiare dall’albo professionale. Ma, fortunatamente, c’era chi la proteggeva nella camera degli avvocati del capoluogo dell’Assia.

      Una donna forte e decisa che, lungo la strada che portò all’articolo 3 della Costituzione tedesca, superò con furbizia i grossi e numerosi macigni che vi avevano posto quelli contrari alla sua idea di società. Eppure bastavano cinque parole: „Männer und Frauen sind gleichberechtigt”. Uomini e donne hanno parità di diritto. Punto. Niente di più e niente di meno.

      Ad opporsi, tuttavia, c’erano soprattutto i colleghi conservatori e liberali della Costituente, come ad esempio quello che dopo sarebbe diventato il primo presidente federale: Theodor Heuss. L’autorevole politico liberale voleva che i privilegi degli uomini restassero invariati. Cosa ad esempio? Se una donna voleva licenziarsi, vale a dire semplicemente liberarsi da un rapporto lavorativo magari opprimente, aveva bisogno del consenso del marito. Una donna che voleva pernottare in un albergo, poteva farlo solo se il marito lo consentiva a priori. E se tra marito e moglie vi era un contrasto su come educare i figli, l’ultima parola spettava al marito.

      Il diritto di famiglia vigente nel 1948 conteneva talmente tante discriminazioni nei confronti delle donne, che Elisabeth Selbert, una donna che durante il Terzo Reich difendeva a spada tratta soprattutto i diritti delle mogli che volevano separarsi dai mariti violenti, non poteva far finta di niente. Scrisse una dozzina di articoli, sia per i quotidiani che per numerose riviste giuridiche. Chiese l’appoggio dei sindacati e mobilitò molte associazioni che si battevano per i diritti delle donne. E inoltre, nel bel mezzo della pausa natalizia, tra la metà di dicembre del 1948 e gli inizi di gennaio del 1949, Elisabeth Selbert scrisse una lettera di quattro pagine e la fece stampare 61 volte. Una lettera con un messaggio chiaro e nitido: dopo la Seconda Guerra mondiale, tra il 1945 ed il 1948, chi ha ricostruito le case distrutte, le strade bombardate e i ponti pericolanti? Sicuramente non gli uomini, per la maggior parte feriti gravemente, prigionieri di guerra o, addirittura, morti e sepolti. Dunque, se non gli uomini chi allora? Le cosiddette “Trümmerfrauen”, le donne che umilmente rovistavano tra le macerie di una Germania devastata, la vera forza motrice della ricostruzione del paese. “E adesso che ci meritiamo più che mai la parità di diritto, non ce la vogliono dare”, concluse la Selbert in quella lettera piena di pathos. E a chi la mandò? La inviò alle mogli dei 61 colleghi dell’Assemblea Costituente, con la speranza che tra un albero di Natale e una festicciola di Capodanno, potessero discutere con i mariti sui diritti delle donne! Ed ecco che il 18 gennaio arriva il Wunder, il miracolo: nella terza seduta la proposta di Elisabeth Selbert passa. La sua gioia era incontenibile.

      Quello che accade dopo, tuttavia, è una tipica storia fatta di tatticismi politici e temporeggiamenti futili. La parità tra uomo e donna sarà per molti anni solo un miraggio: a cambiare le leggi semplici (ma importanti!), quelle che riguardano ad esempio il diritto di famiglia ed ereditario, deve pensarci il Parlamento. E il Bundestag a Bonn si lascia molto tempo, nonostante la nuova costituzione, il Grundgesetz, che prevede che entro il 31 dicembre 1953 l’uguaglianza tra uomo e donna dev’essere trasformata in legge. Ci vorranno, però, altri sette anni: solo agl’inizi degli anni 60, grazie ad un monito della Corte Costituzionale di Karlsruhe, il governo conservatore del cancelliere Adenauer mette nero su bianco la parità tra uomo e donna.

      E la Selbert? Invano tenta di farsi nominare giudice presso la Corte Costituzionale. Il suo ruolo in politica resta, anche all’interno del suo partito, la Spd, marginale. Ma oggi, a distanza di ormai 72 anni dall’entrata in vigore del Grundgesetz, il suo operato resta indelebile nella Storia dell’emancipazione femminile: molte, infatti, sono le scuole a lei dedicate nel territorio nazionale e indimenticabile resta la sua tesi di dottorato di ricerca del 1930 con un tema rivoluzionario, vale a dire il principio secondo cui un divorzio non dev’essere causato dalla colpa di un coniuge. Un principio modernissimo, che cambierà negli anni 70 l’intero diritto di famiglia tedesco25.

      Libertà di religione e coscienza (art. 4 Grundgesetz)

      Nell’alveo della libertà di pensiero, si collocano anche la libertà di religione e di coscienza: tanto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 18), quanto la Carta dei diritti dell’Ue (art. 10) e la Costituzione tedesca (art. 4), infatti, le proclamano in un unico articolo.

       La libertà di religione è un fondamento democratico

      La libertà di religione è uno dei fondamenti delle società democratiche, bene prezioso anche per gli atei, gli agnostici e gli indifferenti. La democrazia, infatti, è tale solo quando tutela le minoranze, anche quelle religiose26. Una democrazia che non tutela le minoranze non è una democrazia ma una dittatura della maggioranza. Difatti, la libertà di religione (ted.: Religionsfreiheit) vuol tutelare anche chi con la religione non vuole avere a che fare. L’affermazione della libertà di religione implica, dunque, la garanzia del suo lato negativo: la cosiddetta libertà di coscienza

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