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       Indice

      L'indomani a sera, — un sabato, — Brontu Dejas rientrò di campagna, e appena smontato da cavallo cominciò a brontolare. In famiglia egli brontolava sempre, mentre con gli estranei mostravasi amabilissimo; del resto era un buon diavolo, giovine e bello, molto nero e molto magro, di media statura, con la barba rossa, corta e ricciuta. Aveva bellissimi denti e quando conversava con donne sorrideva continuamente per mostrarli.

      Rientrando di campagna, il sabato sera, cominciò a brontolare perchè la madre non aveva acceso il lume nè preparata la cena; e forse non aveva torto, perchè infine egli era un lavoratore, e dopo una settimana di fatica, quando il sabato egli rientrava in paese, trovava sempre la casa buia e squallida come quella d'un pezzente.

      — Eh! Eh! Sembra la casa di Isidoro Pane — diceva, scaricando il cavallo. — Accendete dunque il lume, almeno, chè non ci si vede neppure per imprecare. Che c'è da mangiare? — chiese poi.

      — Ci son delle uova, ecco, e del lardo, figlio mio, abbi pazienza — disse zia Martina. — Sai che Costantino Ledda è stato condannato a trent'anni?

      — A ventisette. Ebbene, queste uova? Quel lardo è rancido, mamma mia; perchè non lo buttate alle galline? Alle galline! — ripetè, stringendo i bei denti per la stizza.

      Zia Martina rispose tranquillamente:

      — Non ne mangiano. Sì, a ventisette anni. Ah, son lunghi ventisette anni! Io sognai che lo avevano condannato ai lavori forzati.

      — Ci siete stata voi da quelle donne? Ah! ora saranno contente del loro matrimonio, quelle immonde pezzenti, — diss'egli con curiosità; ma appena la madre ebbe detto che c'era stata, che Giovanna si disperava e si strappava i capelli, e che zia Bachisia le aveva fatto capire d'essersi pentita di non aver affogato la figliuola prima di permetterle quel matrimonio, Brontu si arrabbiò.

      — Perchè ci andate, voi? Che avete voi da fare nella tana di quei pidocchi affamati?

      — Ah, figlio mio, la carità cristiana tu non sai cosa sia! (Zia Martina, pretendeva di essere caritatevole). C'era anche prete Elias, questa mattina; sì, egli andò da loro per confortarle. Giovanna vuol portare il bambino a Nuoro perchè Costantino lo veda prima di partire; io dicevo che è una pazzia, con questo sole; ma prete Elias diceva di portarlo, e quasi si metteva a piangere.

      — Che ne sa lui di bambini? Come tutti i preti egli è un uomo sterile, — disse Brontu, che odiava i preti, perchè un suo zio, parroco del paese prima che da Nuoro venisse mandato prete Elias Portolu, aveva lasciato i suoi beni ad un ospedale. Anche zia Martina conservava rancore per questo fatto, ma sapeva fingere, la vecchia volpe, e ogni volta che Brontu parlava male dei preti, ella si faceva il segno della croce.

      — Cosa dici tu, scimunito? — disse, anche questa volta segnandosi. — Tu non sai neppure dove porti i piedi. Prete Elias è un santo. Se egli ti sente parlar male, guai! Egli ha i libri sacri e può maledire i nostri campi e far venire le cavallette e far morire le api.

      — Allora è un bel santo! — osservò Brontu, poi insistè per avere particolari sulla disperazione delle Era. — Come gridava Giovanna? Cosa diceva zia Bachisia, il vecchio nibbio?

      Ebbene, Giovanna piangeva da schiantar le pietre, e zia Bachisia si disperava perchè, oltre il resto, ora l'avvocato e le spese di giustizia l'avrebbero cacciata nuda anche di casa.

      Il giovine ascoltava con viso intento, beato, mostrando i bei denti di fanciullo. Nella sua contentezza egli era semplicemente feroce.

      — Ecco, — disse poi zia Martina, — Giacobbe Dejas verrà fra poco, per parlare anche con te. Egli voleva cominciare il servizio da domani, ma io gli dissi che aspettasse a lunedì. Ebbene, domani è festa: perchè deve mangiar a ufo?

      — San Costantino bello, siete ben stretta (avara) mamma mia...

      — Ah, tu sei ancora un bimbo! Perchè sprecare? La vita è lunga, e per vivere ce ne vuole!

      — E quelle due donne, come faranno? — chiese Brontu, dopo un po' di silenzio, sedendosi davanti ad un canestro di asfodello, dove zia Martina aveva deposto il pane e le uova.

       — Ebbene, andranno a cercar chiocciole! — rispose zia Martina con ironia. Ella aveva ripreso il fuso e filava vicino alla porta aperta. — T'interessano assai, quelle donne, Brontu Dejas!

      Silenzio. S'udiva il rotolìo del fuso e il suono dei forti denti di Brontu che masticavano il pane duro: e al di fuori, al di là del portico, lo zirlare dei grilli, e più in là, nella solitudine delle macchie, nella calda oscurità della notte incipiente, il grido melanconico dell'assiuolo.

      Brontu si versò il vino, prese il bicchiere e aprì la bocca, ma non per bere. Voleva dire una cosa a sua madre, ma non potè. Bevette: alcune goccie rimasero sulla sua barbetta rossa, ed egli le forbì col dorso della mano, abbassando gli occhi e aprendo ancora le labbra per dire quella cosa. E neppure questa volta potè dirla.

      Ed ecco un suono di scarponi nella spianata. Zia Martina, sempre filando, s'avvicinò al figlio, disse che veniva Giacobbe Dejas, prese il canestro ed il vino e li ripose nell'armadio.

      Entrando, Giacobbe s'accorse dell'atto della vecchia e pensò che ella nascondesse il vino per non offrirgliene un bicchiere; ma era troppo uomo di mondo (così egli diceva) per offendersi, e si avanzò sorridente e lieto.

      — Scommetto, — disse, portandosi un dito al naso — scommetto che parlavate di me.

      — No. Parlavamo di quel povero Costantino Ledda.

      — Ah, sì, povera creatura! — disse Giacobbe, facendosi serio. — E dire che è innocente! Innocente come il sole! Nessuno meglio di me potrebbe affermarlo.

      Brontu si mise in posa, accavalcando le gambe, rovesciandosi un po' indietro e mostrando i denti come faceva con le donne.

      — Le opinioni sono varie! — disse con voce nasale. — Mia madre, per esempio, ha sognato che lo avevano condannato alla morte.

      — O no, Brontu, cosa dici! Ai lavori forzati!

      — Bè, fa lo stesso. Parliamo di noi.

      — Parliamo di noi, — disse Giacobbe, accavalcando anch'egli le gambe.

      Parlarono e conclusero l'affare del servizio di Giacobbe, poi i due uomini uscirono assieme, e Brontu condusse il nuovo servo alla bettola. Giacchè egli non era avaro, e se qualcuno andava a trovarlo a casa non gli dava un bicchiere di vino per non irritare la madre, ma poi lo conduceva alla bettola, dove si mostrava splendido. Quella sera fece bere tanto Giacobbe e tanto egli stesso bevette, che si ubbriacarono.

      Usciti poi nello stradale buio e silenzioso, dove spandevasi il profumo aspro dei campi inariditi, ripresero a parlare di Costantino, e Brontu disse crudelmente che era contento della condanna.

      — Va' al diavolo! — gridò Giacobbe. — Tu sei un uomo senza cuore.

      — Ebbene, sì, sono un uomo senza cuore.

      — Perchè Giovanna non ti ha voluto, tu ti contenti della morte di un tuo simile, anzi di qualche cosa peggiore della morte?

      — Egli non è morto, e non è mio simile, e Giovanna Era son io che non l'ho voluta. Se l'avessi voluta, ella mi avrebbe leccato la suola delle scarpe.

      — Bum! Bada che cadi, uccellino di primavera. Tu sei bugiardo come una serva.

      — Io? Io... non... sono... una... serva! — gridò Brontu, staccando le parole. — Se tu mi ripeti una cosa simile, ti prendo per il cocuzzolo e ti ammazzo.

      — Bum! Ti ho detto che cascavi per terra, uccellino di primavera! — gridò anche Giacobbe.

      Le loro voci risuonarono nella notte silente; ma poi tacquero e tutto fu di nuovo silenzio. In lontananza, al brillare delle stelle, che incoronavano di fiori d'oro i profili di sfinge delle montagne nere, l'assiuolo batteva sempre il suo

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