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Ebbene, che hai? — chiese l'altro a voce bassa. — Sei ubriaco?

      — Sì, sono ubriaco. Ubriaco di veleno, che tu possa morire affogato, avanzo di galera!

      L'altro si offese, perchè non era stato mai non solo in carcere, ma neppure colpito da una contravvenzione, e fu preso da un vago timore. Disse, sempre piano:

      — Tu diventi matto; che hai, perchè parli così? che ti ho fatto io?

      Allora l'altro si sfogò, lamentandosi come se gli facesse male qualche membro, e disse che amava Giovanna come un pazzo, e che aveva sempre pregato il diavolo perchè Costantino venisse condannato.

      — Si pigli pure la mia anima il diavolo, non mi importa nulla, tanto io non credo a lui! — disse poi; e rise, con un riso stridente e fanciullesco, più desolante del pianto di poco prima. — Io sposerò Giovanna.

      Giacobbe si meravigliò, ma dimostrò una meraviglia ancor maggiore di quella che realmente sentiva.

      — Io sono come un uomo affogato! — disse. — Come, perchè, cosa vuol dire tutto ciò? Come tu puoi sposare Giovanna?

      — Farà divorzio, ecco tutto. Ebbene? C'è una legge che alle donne, il cui marito è condannato a molti anni di reclusione, permette di riprendere marito.

      Giacobbe aveva già sentito parlar di ciò, ma nessun caso di divorzio legale e tanto meno di nuovo matrimonio erasi ancora avverato in Orlei; tuttavia per non mostrarsi stupido disse subito:

      — Ah, sì, lo so. Ma è peccato mortale. Giovanna non vorrà.

      — È questo che mi affligge, Giacobbe Dejas! Vuoi tu parlargliene? Sì, parlagliene domani.

      — Sì, proprio domani! Come sei stupido, Brontu Dejas. Sei ricco ma sei stupido come una lucertola. Eppoi sei ancora più stupido. Tu che puoi sposare una donna pura, ricca, una fanciulla simile ad una rosa rugiadosa, tu vuoi sposare quella donna lì. In verità mia c'è da ridere per sette mesi...

      — Ebbene, che tu possa ridere fino a spaccarti come il frutto del melograno! Io la sposerò! — disse Brontu, arrabbiandosi di nuovo. — Nessuna donna è come lei. Io, vedi, io la sposerò!

       — E sposala, uccellino di primavera! — rispose l'altro ridendo. Anche Brontu si mise a ridere; e risero assieme per lungo tratto di via, finchè videro un uomo alto, con un lungo bastone, venire loro incontro a passi silenziosi.

      — Zio Isidoro Pane, avete fatto buona pesca? — gli chiese Giacobbe. — Sono ben punte le vostre gambe?

      — Che tu possa diventare pescatore di sanguisughe, — disse l'altro, avvicinandosi. — Che odore di acquavite! Ah, devono aver rotto qualche barile, qui!

      — Tu vuoi dire che noi siamo ubriachi? — chiese Brontu, minaccioso. — Tu non ti ubriachi perchè non hai con che; allontanati o ti ammazzo. Ti schiaccio come una rana...

      Il vecchio fece una risatina soave e si allontanò.

      — Stupido, — disse Giacobbe a bassa voce. — Egli può farti l'ambasciata; è amico di Giovanna.

      — Ebbene, — cominciò a gridare Brontu, volgendosi e scuotendo le braccia, — vieni, vieni! Vieni qui, ti dico, Sidore Pane, che ti morsichi il cane!

      Rise della sua rima ben riuscita, ma Isidoro non si fermò.

      — E dunque! — gridò ancora l'ubriaco, balbettando un po', — ti dico di venire! Ah, tu non vuoi venire, piccolo rospo? Ti ho detto...

      Ma Isidoro s'allontanava a passi silenziosi.

      — Non dirgli così, che modo è questo? — mormorò Giacobbe.

      Allora Brontu cambiò metodo.

       — Fiorellino, vieni! Vieni chè ho da parlarti. Dirai a quella donna tua amica... ebbene, sì, a Giovanna, che se fa divorzio io la sposo.

      Allora il vecchio si fermò di botto, si volse, chiamò con voce sonora:

      — Giacobbe Dejas!

      — Che volete, anima mia? — chiese il servo con voce sarcastica.

      — Fallo ta...ce...re! — disse Isidoro in tono di severo comando.

      Non seppe perchè, Giacobbe provò un brivido nel sentire quella voce e quelle due parole, e tosto prese il padrone per il braccio e lo trascinò via, mormorandogli:

      — Sì, sei uno stupido. Che modi sono questi? Ti comporti come un montone, uccellino di primavera.....

      — Non me l'hai detto tu?

      — Io? Tu vacilli. Io non sono matto.

      E andarono via uniti, barcollanti: nel portico dei Dejas trovarono zia Martina che filava ancora, al buio. Ella s'accorse tosto che il figlio era ubriaco, ma non gli disse niente, perchè sapeva che contrariandolo, quando egli si trovava in quello stato, montava in furore: soltanto quando Brontu le chiese del vino, ella rispose che non ce n'era.

      — Ah, non c'è vino in casa Dejas, la più ricca del paese? Come siete avara, mamma mia! — Egli cominciò a urlare. — Io non farò scandali, no, ma sposerò Giovanna.

      — Sì, sì, tu la sposerai, — disse zia Martina per calmarlo. — Intanto coricati e non gridare, perchè se essa ti sente non ti vuole.

      Egli tacque, ma volle che Giacobbe spiegasse e stendesse per terra due stuoie di giunco, vi si coricò e volle che il servo gli si coricasse vicino. Zia Martina lasciò fare per non irritarlo, e così Giacobbe invece che al lunedì prese servizio il sabato sera.

       Indice

      Circa quindici giorni dopo, una domenica mattina, tutti i nostri personaggi si trovarono riuniti alla Messa officiata dal prete Elias che, dicevano quelli del paese, quando celebrava pareva avesse le ali.

      Mancava solo Giovanna, e mancava per due ragioni: anzitutto perchè la disgrazia accadutale imponeva un certo duolo, che la costringeva a non mostrarsi fuori di casa, tranne che il bisogno di lavorar fuori non glielo imponesse; e poi perchè ella era caduta in una specie di atonia che le impediva di muoversi, di uscire, di lavorare, di pregare. Già, buona cristiana ella non era stata mai: soltanto prima del dibattimento di Costantino aveva fatto qualche voto, come quello di recarsi a piedi, scalza, a capelli sciolti, fino ad una lontana chiesa di montagna, e se Costantino veniva assolto, di trascinarsi sulle ginocchia dal punto ove appena scorgevasi la chiesa, fino alla chiesa stessa, cioè per due chilometri circa.

       Ora non pregava, non parlava, non mangiava. Anche il bimbo le era diventato quasi indifferente, e zia Bachisia doveva nutrirlo con latte e pane masticato per tenerlo su. Qualcuno diceva che Giovanna stava per impazzire, ed infatti, se ella usciva dalla sua atonia, durante la quale stava ore ed ore accoccolata in un canto con gli occhi vitrei fissi nel vuoto, era per dare in escandescenze, strapparsi i capelli, urlare parole insensate. Dopo il suo ultimo colloquio con Costantino, al quale aveva portato il bimbo, ella non pensava ad altro che alla scena avvenuta, e la ripeteva ad intervalli, con l'accento incosciente dei monomaniaci.

      — Egli era là e rideva. Era livido e rideva. Dietro l'inferriata. Malthineddu si attaccò all'inferriata e lui gli toccò le manine. E rideva. Cuore mio! Cuore mio! Non ridere così, che mi fai male, tanto lo so che il tuo riso è il riso dei morti. E i guardiani stavano lì come arpie. Prima erano buoni questi guardiani di carne umana, ma dopo, dacchè Costantino è condannato, son diventati cattivi. Cattivi come cani. Malthinu nel vederli aveva paura e piangeva. E il padre rideva, capite? Il bambino, la creatura innocente, piangeva: capiva che suo padre era condannato e piangeva. Cuore mio! Cuore mio!

      Zia Bachisia sbuffava, non ne poteva più, e diceva:

      — In verità mia, tu sembri una creatura di due anni, Giovanna, anima mia. Ha più giudizio tuo figlio di te, sciocca.

      E minacciava persino di bastonarla; ma tutto,

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