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tutto.

      Appena ebbero cenato, le Era uscirono per andare dall'avvocato.

      — Dove le farete dormire? — chiese Paolo. — Nella camera dei forestieri?

      — Sicuro. Perchè?

       — Perchè veramente volevo starci io lassù: qui si soffoca. Qual migliore forestiero di me?

      — Abbi pazienza fino a domani, figliolino mio. Esse sono povere ospiti...

      — Oh Dio, che barbari costumi, quando finiranno? — egli chiese indispettito.

      — Lo chiedo anch'io, — disse zio Efes Maria, che s'era messo a leggere il giornale. — Mi rompono le scatole queste donne. Ebbene, cosa ne dici tu del nuovo Ministero?

      — Io me ne infischio, — egli rispose ridendo, perchè ricordava quel personaggio della Dame chez Maxim, delizia del teatro Manzoni, del quale egli era un habitué.

      E andò a guardare certi libri che aveva riposti in una nicchia in fondo alla stanza. Minnìa e il fratellino erano usciti nel cortile; Grazia, seduta davanti alla tavola, coi pugni nelle guancie, guardava sempre lo zio. Ed egli le si rivolse:

      — Tu leggi romanzi, non è vero?

      — Io no, — diss'ella arrossendo.

      — Ed io ti dico che se ti trovo io, leggendo certi libri, te li scaravento sul capo...

      Le labbra di lei tremarono: per nascondere il suo pianto s'alzò ed uscì fuori, e sentì che i fratellini litigavano ancora a proposito del portamonete col papa.

      — In quanto a rubare, — diceva il bambino, — tu stai zitta, perchè tu con quell'altra che è lì, quella pertica, oggi voi avete venduto del vino e vi siete tenute i soldi...

       — Ah, bugiardo! — disse Grazia andandogli sopra, e lo picchiò mentre piangeva amaramente.

      Intorno cantavano i grilli; il cavallo ruminava sbattendo la zampa sul selciato, le stelle piovevano un barlume latteo sul cortile caldo e fragrante di fieno secco.

      — Essa è una povera orfana, non maltrattarla, — diceva zia Porredda a suo figlio, difendendo Grazia, (i tre ragazzi erano figli del figlio maggiore dei Porru, ricco pastore, e di una giovane morta un anno prima) — e se vuol leggere lasciala leggere.

      — Sì, lasciala leggere! — affermò solennemente zio Efes Maria. — Ah, perchè non lasciarono leggere anche me quando era giovinetto? Sarei diventato astronomo, istruito come un prete.

      Astronomo, per zio Efes Maria, era uomo coltissimo, savissimo, come a dire filosofo.

      — Hai visto il papa, figlio mio? — chiese zia Porredda, per associazione d'idee.

      — No.

      — Come, tu non hai visto il papa?

      — O che credete voi? Il papa sta dentro una scatola, e per vederlo bisogna pagare, pagare molto.

      — Oh va! — ella disse — tu sei un miscredente.

      E uscì nel cortile, dove i nipotini si bastonavano: piombò in mezzo a loro, li divise, li gettò uno per parte del cortile, gridando:

      — In verità mia che siete tanti pollastri. Eccoli i pollastri, che Dio vi salvi. Cattivi figliuoli! Tutti cattivi!

      I bambini singhiozzavano fra lo stridìo dei grilli, nella notte serena.

       Indice

      L'indomani mattina Giovanna fu la prima a svegliarsi: dal vetro infisso nella porta penetrava un roseo barlume d'aurora, e nel silenzio mattutino si udivano garrir le rondini.

      Appena svegliata, la giovine provò un senso di dolcezza, ma tosto le parve che un rombo di tuono fortissimo l'avvolgesse. Ricordava.

      Quel giorno doveva decidersi il destino del suo sposo. Ella aveva la certezza della condanna di Costantino, ma si ostinava a sperare ancora. Che egli fosse o no colpevole ella non pensava affatto, e forse non aveva pensato mai: solo la conseguenza del fatto, la separazione forse eterna da quell'uomo giovine, dalle forme svelte e forti come quelle d'un veltro, dalle mani liscie e le labbra ardenti, la martoriava. E nel ricordare sentì tanta angoscia che balzò incoscientemente dal letto e cominciò a vestirsi, dicendo con voce anelante:

      — E tardi, è tardi, è tardi...

      Zia Bachisia apri i suoi piccoli occhi di lucciola, ed anch'essa si alzò; ma sapeva bene ciò che doveva accadere quel giorno e il giorno dopo e un anno e due e dieci anni dopo, per non scalmanarsi. Si vestì, intinse le mani nell'acqua e se le passò sul viso una sola volta; poi s'asciugò e avvolse la benda sul capo con somma cura.

      — È tardi, — ripeteva Giovanna. — Dio mio, è tardi...

      Ma la calma della madre finì col calmare anche lei. Zia Bachisia scese in cucina e Giovanna la seguì; zia Bachisia preparò il caffè-latte e il pane per Costantino (essendo permesso alle due donne di recar da mangiare all'accusato), mise tutto in un canestro e s'avviò verso le carceri: e Giovanna la seguì.

      Le vie erano deserte; il sole, appena sorto sulle cime granitiche dell'Orthobene, inondava l'aria di pulviscoli d'oro roseo; il cielo era così azzurro, e gli uccelli così lieti, e l'aria così calma e odorosa che pareva un mattino di festa, non ancora animato dalla gente e dal suono delle campane. Giovanna, attraversando la strada che dalla stazione (presso cui abitavano i Porru) conduce alle carceri, guardava i suoi violacei monti lontani, adagiati come un enorme diadema d'ametista sull'orlo delle grandi valli selvaggie, respirava l'aria piena di profumi selvatici, pensava alla sua piccola casa di schisto, al suo bambino, alla felicità perduta; e si sentiva morire.

      La madre trottava avanti, col canestro sul capo. Arrivarono davanti alla mole rotonda, bianca e desolata delle carceri: nel silenzio e nella luminosità mattutina la sentinella immobile e muta pareva una statua: un cespuglio verde sorgeva accanto al muro del carcere, accrescendo la tristezza del luogo. Il portone verdognolo che di tanto in tanto si socchiudeva come la bocca d'una sfinge, s'aprì per inghiottire le due donne. Tutti là dentro, nell'antro orrendo, conoscevano le due sventurate; dal capo-guardiano, rosso e imponente, che sembrava un generale, all'ultima guardia pallida dai baffi biondi ritti, che aveva pretese d'eleganza.

      Nell'andito buio e fetente si sentiva già tutto l'orrore dell'interno: le due donne non procedettero oltre; ma il guardiano pallido ed elegante venne a prendere il canestro, e Giovanna gli chiese sottovoce se Costantino aveva dormito.

      — Sì, egli ha dormito, ma sognava, sognava. Diceva: Il peccato mortale.

      — Ah, quel suo peccato mortale, che egli vada al diavolo!... — disse zia Bachisia. — Dovrebbe finirla!

      — Mamma mia, perchè lo imprecate? Non è egli abbastanza maledetto dalla sorte? — mormorò Giovanna.

      Ritornate fuori, le due donne attesero l'uscita dell'accusato. Quando Giovanna vide i carabinieri che dovevano condurlo alla Corte, cominciò a tremare convulsivamente, sebbene anche i giorni avanti l'avesse visto uscire fra di loro. I suoi occhi neri s'allargarono, fissando il portone con uno sguardo pazzo. Minuti d'attesa spasmodica trascorsero: la bocca della sfinge si socchiuse ancora e fra i gendarmi dal viso grigio di granito e i lunghi baffi neri, apparve la figura di Costantino. Era alto ed agile come un giovane pioppo: due bende di capelli neri, lucidi e lunghi, incorniciavano il suo viso sbarbato d'una bellezza femminea, sbiancato dalla prigionia; aveva due grandi occhi castanei e una piccola bocca di fanciullo innocente. E la fossetta sul mento: sembrava un giovine Apollo.

      Appena vide Giovanna, sebbene anch'egli aspettasse quel momento, si fece ancora più bianco e si fermò resistendo ai soldati. Giovanna gli si precipitò davanti e singhiozzando gli strinse la mano incatenata.

      — Avanti, — disse un carabiniere, con voce dolce, — tu sai che non è permesso, buona donna.

      Ma

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