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che riassume l'amore e morte di Leopardi, è accompagnata da un motivo così lento e triste che vi mette nell'anima un desiderio insolito di pace e di silenzio, un arcano struggimento dell'ultima ora.

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      Al popolo nessuno parla di patria e di libertà, nessuno gli dice che ha dei diritti, nessuno gli suggerisce la parola eguaglianza; il popolo non sa la storia e niuno cura d'insegnargliela, eppure il popolo si solleva, combatte, cade, risorge, è glorioso: una canzone patriottica lo ha infiammato, ne ha risvegliato il valore e sostenuto il coraggio. Nel 1860 vennero fuori mille canzoni di guerra, senza sapere chi ne avesse gettata la prima nota; al loro suono sorgevano i soldati dalla terra, i giovani ed i vecchi sentivano per le vene un fremito, i cervelli si mettevano in tumulto, le mani correvano all'armi; e si moriva, si moriva con la gioia negli occhi ed il canto sul labbro. Anche adesso, dopo tanti anni, dopo che l'Italia è compiuta, dopo che tante febbrili illusioni sono svanite, al risentire quei canti gli occhi si riaccendono ed il cuore si solleva. Bonaparte il grande, prima d'inebbriare i suoi soldati con la polvere ed il fuoco, li inebbriava con le canzoni popolari; è la canzone popolare che, insieme alle teorie dei filosofi, crea la presa della Bastiglia e la rivoluzione francese; essa è un'arme contro il tiranno, contro il cattivo governante, un'arme che vale più del fischio, più dell'urlo, più della pietra; perchè il fischio, l'urlo, la pietra significano l'individuo e la canzone significa la massa, il numero e la forza.

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      Si è detto, ed anche da un ingegno illustre, che il popolo non è vero poeta, massime il popolo napoletano. È così: l'elemento poetico delle canzoni è scarso, a lampi, il senso spesso ne diviene incomprensibile—talora sono frasi, parole accoppiate senz'ordine e senza significato. Ma nell'elemento musicale è la grande rivincita, nell'elemento musicale ricchissimo di melodia e di espressione; tutto quello che la poesia non dice, la musica lo interpreta e lo rende, schiudendovi un orizzonte largo, immenso, dove la fantasia può meglio spaziare che nello stretto giro della parola. La cantilena del marinaio vi giunge senza che possiate ascoltare quello che egli dice, eppure vi parla del dolore della partenza, del lungo viaggio in paesi ignoti, dell'ansia del ritorno; quando sulla barchetta al largo, si canta di Santa Lucia, voi senza saperne nulla, indovinate, al sentirne solo il ritornello, tutta quell'allegra vita sotto il sole caldo, nel profumo del mare, nelle notti limpide e serene. Non ci è poesia ed intanto potete crearci un poema, un poema tanto più bello in quanto che vi mettete una parte di voi, riunite al sentimento della musica quello del vostro cuore e quasi tacitamente ringraziate colui che pose delle frasi senza costrutto sopra una musica divina, e vi lasciò la libertà di adattarvi tutte quelle che la vostra immaginazione può plasmare. Forse il popolo non è poeta vero nel pensiero, ma è tale nel sentimento—stroppia il concetto ed è insuperabile nella musica. Vi è qualcuno che preferisce questa seconda poesia alla prima.

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      La scienza è la misura del dolore—è una severa verità. Più si procede nel regno del pensiero e più l'occhio della mente discopre abissi paurosi, e l'anima sitibonda di pace vorrebbe ritornare all'antica ignoranza: in alto vi sono dei fatali miraggi che attirano, affascinano e non si fanno raggiungere mai, in alto il pensatore e l'artista soffrono. Ma in basso, nell'ignoranza anche, si soffre: in alto vi è la povertà smagliante, in basso la povertà nera. In basso vi è il pensiero del domani senza pane, dei figli senza tetto, della vecchiaia che si approssima: tutto questo può fermentare e diventare odio. Allora si maledirà al lavoro continuo senza l'adeguata ricompensa, si maledirà all'ingiusta divisione dei beni della terra e la cattiva idea del socialismo sotto la sua forma più rozza si farà strada. Ma no, no; il popolo non può odiare, il popolo non può maledire, perchè canta: la povera cucitrice con gli occhi stanchi ed il petto logorato accompagna con la voce il tic-tac della macchina; il muratore, arrampicandosi per le impalcature dove arrischia la vita, gitta al vento le note della sua canzone; nel seno della terra dove non entra barlume di sole, il minatore unisce ai colpi regolari della sua piccozza un monotono ritornello. Il popolo non ha svaghi, non ha consolazioni, non ha gli strani piaceri in cui noi ci anneghiamo—il popolo per dimenticare, per non maledire, per sorridere, non ha che il canto. Lasciatelo cantare…

      Chi sa! È forse così che parla a Dio.

       Indice

      Parola aspra ed invenzione antica. Se le escursioni storiche fossero permesse con la stagione che si avanza, troverei bene qualche monaco medioevale che se ne servì per isfuggire la scomunica, qualche timida poetessa che vi adombrò i suoi lamenti d'amore, ed infine, per congiurare direttamente contro la pace del lettore, io parlerei dell'Arcadia. Ma tutto questo, oltre all'essere micidiale, sarebbe anche inutile; perchè lo pseudonimo, come passaporto, come legge, come istituzione, è una gloria della letteratura moderna. E più che una moda, è una febbre, una smania: dall'articolista di grande giornale sino al droghiere del villaggio che manda le nozioni di chimica al giornaletto del capoluogo; dal romanziero rinomato sino al biondo adolescente che pubblica le sue novelle sui letterari e clandestini periodici della domenica; dalla scuola romantica che muore, a quella realista che crede di essersi affermata; dal poeta sommo a quello che confeziona sonetti: tutti, tutti pare abbiano il vivissimo bisogno di lasciare il proprio nome e di prenderne un altro. È una protesta in regola contro il gusto di babbo e mamma, contro il registro dello Stato Civile e quello della parrocchia: libero nome in libera letteratura! Lo pseudonimo diventa un elemento necessario, indispensabile di successo; basta averlo per poter scrivere; anzi qualcuno pensa a provvedersene prima di esser sicuro che conosce la lingua italiana.

      Trovarlo non è molto difficile: vi è il campo della buona ed inesausta mitologia, vecchia mitologia, che tutti spregiano ed a cui tutti ricorrono, quando vogliono esprimere la parvenza del bello e del divino; vi è la storia, fantasmagorica galleria di tipi spiccati ed eccezionali; vi è l'arte con le sue manifestazioni pittoriche, scultorie, musicali, poetiche; vi sono le stranezze dei nomi greci, la severità dei latini, i modi di dire, i sottintesi di tutte le altre lingue; vi sono i fiori, il paradiso, le stelle, l'inferno—ed il mondo. Un vocabolario senza fine! Allora si cerca, si cerca, si cerca; si discute, si chiede agli amici, s'interroga l'amica, si consulta il professore, l'archeologo: oggi vi è una decisione, domani esitazione, dopodomani abbandono. Da capo a cercare, è un affar serio, bisogna averlo, non si può vivere senza di esso, ne va della dignità; l'attenzione si ferma, finalmente! Lo pseudonimo è trovato, lo si assume, lo si spiega, lo si commenta; è stampato sulla carta da lettere, ricamato sui fazzoletti, inciso sul suggello—investitura completa. Il fortunato possessore passa a godere i vantaggi ed i malanni della sua nuova proprietà.

      Facciamo vi sia un poetino, il quale senta l'irresistibile desiderio di narrare al pubblico i dolori del suo cuore trafitto ed intanto si chiami Pasquale; i dolori ed il cuore trafitto, hanno un carattere d'incompatibilità col nome Pasquale. Ebbene, una firma nebulosa, Vesper, ed il rimedio è trovato; le giovani lettrici si commuovono ed ammirano. L'unica cosa che possa attenuare le proporzioni di un fiasco è lo pseudonimo, santuario in cui si ricovera dignitosamente l'autore offeso, pronto ad uscirne nel caso di un successo. E dove mettete quella cara libertà di sbizzarrirsi, di punzecchiare l'amico? Nessun obbligo di esser modesto, facoltà di dire sciocchezze, paradossi, financo verità: tutti sorrideranno, nessuno andrà in collera ed in questi tempi di squisitissime suscettività nervose, un parafulmine morale è cosa molto utile. Si stabilisce un dualismo, uno sdoppiamento, una impersonalità piena di diletto; l'uomo arrischia le sue riserve senza paura, la donna anche si mette in campo. Volere o non volere, la donna è sempre un po' timida—le ragioni non servono—ha scorno di rivelarsi e tiene per sè le acute e sottili osservazioni, le sfumature del sentimento, le cognizioni del cuore, se queste parole vanno bene insieme. Tutto questo si perde, perchè ci vuole un pochino di coraggio a firmare in disteso anche la più piccola verità: invece sotto la salvaguardia del nomignolo, le confessioni si fanno adito, si espandono, si moltiplicano con la massima soddisfazione dei signori uomini, che vedono esser questo l'unico mezzo per saperne qualche cosa di più sulle signore donne.

      La storia aneddotica dello pseudonimo è molto ricca. Sono incidenti agrodolci, talvolta punto piacevoli:

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