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nei tempi trascorsi. Poco tempo addietro non s'incontrava anima viva, che volesse accettare la trista eredità del Potere Economico; la ricusavano tutti, anzi aborrivanla; però che a così fare persuadessero alcuni pudore, altri la usanza. Adesso, sembra che si pentano della improvvida renunzia, e mettono innanzi non so quali restituzioni in integrum, come pei pupilli si costuma fare! Io mi era astenuto favellarne; parevami decoroso per la fama della nostra civiltà non ridestare memorie, che a tutti noi dovrebbe essere grato lasciare nell'oblio: ed io, a cui avrebbe dovuto tornare più ardua la dimenticanza, dimenticava mosso da patria carità. Pensava, che evocare coteste memorie deplorabili si uguagliasse allo agitare che fece Marcantonio, davanti agli occhi del Popolo, la camicia insanguinata di Cesare! Quantunque io considerassi qual tesoro di pietà mi schiuderebbe appo l'universale la esposizione dei patiti dolori, io non ardiva discorrerne, — mi vergognava..... in verità mi vergognava....! Temeva mi si dicesse: tu vuoi commuovere le nostre menti con gli affetti per mancanza di ragioni. Adesso, mercè l'Atto di Accusa, mi è fatta abilità di favellarne, e di ciò grazie gli sieno, imperciocchè io deva credere, ch'egli in bel modo mi abbia voluto porgere occasione di rivelare anche in questa parte le vicende della mia vita. Ecco pertanto le parole dell'Atto di Accusa. «Questo imputato ha interessato altre volte, e sempre per cause politiche, ora l'Autorità Governativa, ora la Giustizia, ora la Grazia.[59]» Cinque sono le piaghe di cui porto le stimate, ed è questa la sesta.

      Nel 1821, fanciullo di quattordici anni, attendevo agli studii forensi nella Università Pisana. Cotesto anno andò famoso per rivoluzioni italiane, specialmente di Napoli. Da cotesto Regno erano mandate Gazzette, le quali, oltre al racconto dei casi, che alla giornata vi succedevano, referivano i discorsi tenuti nel Parlamento da personaggi per chiarezza di fama prestantissimi. La lettura delle Gazzette si permetteva nei Caffè, ed è facile immaginare se la curiosità od altro più nobile affetto le menti giovanili invogliassero a sapere di cotesti successi e di coteste orazioni. Non bastando però una sola copia a soddisfare la impazienza degli scolari, fu stabilito che a turno uno di noi salisse sopra luogo eminente e leggesse. A me toccò la mia volta come agli altri, e voglio confessare più spesso che agli altri, forse perchè avessi o migliore voce, o migliore garbo nel leggere. — Questo fatto mi fruttò la perdita di un anno accademico per Risoluzione Economica del Buon Governo. — Se cotesta era colpa, perchè consentire che le Gazzette si esponessero alla lettura nei Caffè? Non pareva insidia tesa a inesperti fanciulli? E se non era colpa, perchè punirci? E chiunque pensi che coteste pene cadevano sopra famiglie numerose, la più parte scarse di averi, e come a molti giovani venissero ad essere rotti per sempre gli studii, ad altri con inestimabile danno ritardati, non dubiterà affermare, che potevano reputarsi veri omicidii intellettuali. Ho narrato altrove[60] come, venuto a Firenze, reclamassi della ingiustizia presso il Presidente del Buon Governo, il quale mi disse: A lui non appartenere la facoltà di graziare; egli non potere fare altro che punire. Alla quale proposta risposi: Io vi compiango, Signore, se occupando un posto dove anche senza volere fate del male, e al mal fatto non potete riparare nè anche volendo, la vostra coscienza vi consente rimanervi. — Come si chiama questa Grazia o Giustizia? Lo dica l'Atto di Accusa, chè per me io me ne lavo le mani.

      Ci era una volta..... e forse vi è ancora, in Livorno un'Accademia dall'antico Ercole Labrone appellata Labronica. Me vollero ascritto alla medesima, e, quantunque non mi sentissi troppo tagliato a diventare Accademico, per non comparire scortese mi lasciai fare. Tenevano allora in cotesto collegio il primato uomini antichi e presuntuosi, usi a convocare una o due volte l'anno i cittadini, perchè ascoltassero i vieti sospiri in rima di qualche pastorello di sessant'anni suonati. Pazze cose invero, ma innocenti fin qui. — Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima, sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata, sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia; e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese, e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi, plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi, dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi tolto pretesto a predicare massime sovversive al trono e all'altare (allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente, non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino; e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza ordine al Governatore stesso, che m'intimasse la relegazione per sei mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese. Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire; lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano, repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai a Livorno.[61]

      Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di sei mesi io era cacciato prima, poi confinato in Livorno! — Ora è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in Toscana mentre durava la Censura preventiva; le quali due edizioni, dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino. Uno dei miei segreti denunziatori

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