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dire altro, da chi una volta fu amico, doveva per pudore tacere; però che, secondo la greca sentenza, l'amicizia cessata sia un Tempio di cui, remosso il Dio, voglionsi venerare le pareti mai sempre in memoria della Divinità. E la raccomandazione bastava, sicchè il Giornale poteva essere distribuito liberamente di poi. Peccati veniali erano quelli pei tempi che correvano, nè avrei potuto finalmente volere, che agl'incendiatori di un foglio fosse applicata la pena del taglione! Siccome non fui vile, perseguitato; non conobbi vendetta, potente. — A sedare i tumulti di Portoferraio, di concerto di S. A. e del Ministro D'Ayala, presi le determinazioni opportune illico et immediate; nelle stanze stesse del Granduca, lui presente, dettai la commissione; mandammo pel Sig. Giorgio Manganaro, e senza perdita di tempo, lo spedimmo subito subito alla Isola dell'Elba.[37] Andò, sedò, arrestò i supposti autori, e li tradusse davanti ai Tribunali ordinarii. I Tribunali assolverono.[38] È mia la colpa, dite, se i Tribunali allora erano facili a scusare, come adesso lo sono a punire? È mia la colpa, se gli uomini, diventati barometri, ad ogni lieve impressione di caldo e di freddo abbassano od alzano il loro mercurio? È mia colpa se, istrioni sopra la scena del mondo, talora essi sostengono la parte di Tito, tal altra quella di Dracone? Volete sapere come scriveva all'ottimo Giorgio Manganaro a schiarimento di certi suoi quesiti? «Signore Giorgio Manganaro. Firenze 21 novembre 1848. Io odio le vie eccezionali: sono da deboli. Il Granduca ha fatta l'amnistia: vedasi se G...... vi sia compreso; ciò spetta ai Tribunali. Dove non sia compreso, procedasi con rigore apertamente, e giustamente. In ogni caso, da qui innanzi chi rompe paga senza paura. Addio.» Io dunque al mio dovere adempiva; perchè non lo adempirono tutti?

      Il tripudio per la morte del Rossi non fu opera del Governatore; pure lo appuntai di essersi presentato al Popolo; barbara cosa lo reputammo, ed era; fin da quel momento desiderai occasione di rimuovere il Pigli da Livorno, e quando capitò senza timore di resistenze tumultuarie, lo rimossi. Ma in questo modo parlando di Carlo Pigli, io non posso astenermi, nè devo, da aggiungere che non cuore malvagio, il quale anzi io gli conobbi compassionevole e buono, ma difetto di sufficiente costanza a resistere alle improntitudini altrui lo indusse a dire parole di cui egli ebbe a pentirsi amaramente poi.[39]

       Io so come un visconte D'Arlincourt abbia scritto, che il conte Mamiani, il principe di Canino, Sterbini ed io deliberammo a Livorno la strage del Rossi. Pare che questa prima deliberazione non bastasse, perchè, secondo lo egregio Visconte, lo atroce omicidio fu messo di nuovo a partito a Firenze in Via Santa Apollina (com'egli dice), e fu tratto a sorte chi dovesse fare il colpo fra Montanelli, Sterbini, Galletti e Canino; e la sorte ad arte si operò che cadesse su l'ultimo di loro. Ma nè anche queste deliberazioni bastarono; perchè il negozio succedesse col mistero necessario alle opere di sangue, decisione uguale fu presa a Genova nell'Albergo Feder, e a Torino nel Circolo Gioberti (Italia rossa, pag. 82). — Tali e siffatti gesti per me si operarono, finchè, secondo che ci ammaestra il pro' Visconte, il Popolo tornava a sventolare l'antica bandiera toscana turchina e rossa invece della tricolore (Ivi, pag. 87). Io deploro col profondo del cuore, che altri siasi reputato offeso da cotesto sciaurato; e troppo più deploro, che per le costui ribalderie nobile sangue italiano sia stato in procinto di versarsi. Lasciate andare; cotesto è fango, e del peggiore, che schizza mentre passa a rompicollo la treggia della reazione. — Oh! antica nobiltà di Francia quanto basso caduta.....

      Se le violenze elettorali non furono potute prevenire, furono però represse in Firenze dalla mia stessa presenza, recandomi di persona ad ogni Collegio Elettorale in compagnia del Sig. Baldini maggiore della Guardia Civica, nè mi ritrassi, finchè non rimasi sicuro che ogni cosa andasse in ordine.[40] Passando da Pisa, per una parola che profferii, venni sottoposto a processo! — E la parola fu questa. Antonio Dell'Hoste, uomo egregio, aspettatomi alla Stazione della Strada Ferrata, mi diceva: «Grande essere in Pisa il perturbamento per l'elezioni; dolergli nel profondo che avessero tolto il nome suo a pretesto di sommossa; avere dichiarato invano non potere accettare ufficio di Deputato; provvedessi, perchè forte temeva che in cotesto giorno avrebbero rotto o urne, o teste.» Io gli rispondeva, mancare di autorità per provvedere; ciò spettare ai Magistrati locali, che avrebbero fatto buono ufficio ricorrendo alla Guardia Civica; e siccome egli sembrava dubitare della energia di quelli, della efficacia di questa, io replicava: «E allora, o come pensi che potrei provvedere io? Ho forse meco uno esercito? Confido che non avverrà cosa da deplorarsi; in ogni evento, meglio sarà che rompano le urne, che le teste.» E questo favellai nel senso proverbiale di chi dovendo scegliere fra due partiti tristi accetta il men peggio. Meglio è cascare dalle scale che dalla finestra, costuma dire il Popolo; nè per questo si pensa, che uomo desideri rotolare le scale; e nonostante fui accusato! Vedi se incominciò a soffiare rigido il vento davvero! Manco male, che mi posero fuori di accusa senz'altro danno; altrimenti avrei imparato quanto sia pericoloso discorrere per proverbii. — Nei Paesi Costituzionali, anche in tempi ordinarii, il periodo delle elezioni non passa senza disturbi più o meno gravi;[41] e quello che merita considerazione fra noi si è, che, nonostante lo agitarsi della gente, poterono essere eletti quelli che intendeva escludere, e l'elezioni furono lasciate libere per modo, che uno Scrittore ebbe a dire, che il nostro Ministero contava nel Consiglio Generale tre voti soltanto;[42] avesse almeno detto sei, manco male! Sei eravamo Ministri, e tutti deputati; e che avessimo a fare come Licurgo, il quale piantando la vite si tagliò le gambe, non è poi da credersi, nonostante la pesa autorità dello Scrittore allegato. Ad ogni modo, l'elezioni allora e poi furono liberissime per la parte del Ministero; nessuno ardì rimproverarlo di brogli o di arti consuete pur troppo ad usarsi dal Potere per procacciarsi la maggiorità. Intorno alla insinuazione benevola, che tempo avessi e modo di prevenire, accennerò, che dei giorni elettorali, uno e mezzo, cioè quello preciso in cui avvenne la rottura delle urne a Firenze, passai in viaggio e a Livorno per esercitare lo ufficio di elettore, donde a gran fretta venni richiamato per ovviare al rinnuovarsi del tumulto; e che avendo voluto libere sempre l'elezioni, e vigilato di persona perchè uscissero libere siccome veramente elle uscirono, se avessi potuto immaginare che per un momento fossero state disturbate, avrei fino dal primo giorno provveduto, come feci il terzo.[43]

      E qui mi gode l'animo di riportare una parte di lettera che scrissi nel 27 novembre 1848 al signore Andrea Padovani gentiluomo livornese, in risposta di certa sua nella quale tenevami proposito di Ridolfo Castinelli, non voluto da un partito deputato a Pisa, e non pertanto eletto a Pisa e a Castelfranco, patria dei miei padri, per opera in ispecie dei miei parenti ed amici: «Il Ministero è deciso a fare rispettare la Legge, e ha preso le sue disposizioni in proposito: spera che non sarà condotto ad estremità; se lo fosse, con meno jattanza di altri, ma più costanza assai, dichiara, che saprà morire al suo posto. Però supplica che i prudenti non accrescano difficoltà alle già tante che lo tengono oppresso: prudenza dunque e gravità. Tutti si uniscano a noi per creare un governo, una amministrazione, una qualche cosa che difenda e assicuri, e poi ci mandino al diavolo. Se altri ha mezza voglia di mandarci, noi l'abbiamo intera per tornarcene a casa. Per me mi sento sbigottito dalla fatica e dalle rinascenti difficoltà. Questa lettera potrà sembrarti severa, ma ti dimostrerà parimente che io ti stimo e che sono degno della tua amicizia. Addio.»

      Confido, che quanti leggeranno questa Apologia, con voglie pronte si affretteranno a mandarmi le lettere che posseggono di mio, le quali valgano ad allontanare da me le turpi imputazioni dell'Accusa. — Certo non mancherà essa di persistere che le mie parole sono astuzie di chi doppio ha il cuore per mostrarsi alla occasione o topo o uccello, come il vipistrello del Padre Moneti. — Facile è insultare l'uomo oppresso e in carcere.... e se verecondia e giustizia non fanno inciampo a questa facile a un punto ed infelice potenza, davvero non posso farcelo io. Tra i miei Giudici e me giudichi il Paese.

      Le violenze voglionsi sempre prevenire, e, quando non si può, almeno reprimere; però biasimati come meritano coloro che oltraggiarono gli scrittori della Vespa, è forza che io apra l'animo mio intero intorno alle parole dell'Accusa: essa loda cotesto Giornale come quello che aveva avuto il coraggio di farsi oppositore al Ministero. Calunnia perfida, insinuazioni iniquissime, vituperii senza fine erano le arti della Vespa, e l'Accusa trova parole di lode per lei! — Quando ogni altro riscontro mancasse per dimostrare con quale e quanta stemperatezza proceda l'Accusa, basterebbe questo uno. Dunque animosi erano tutti i calunniatori del Ministero? Egregi uomini quanti lo vituperavano? L'Accusa, nello infinito odio contro il mio Ministero, non è contenta

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