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imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami.

      Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli, ormai infastidito, disse loro: «che gli ringraziava dei consigli, e che io sarei tornato ad ogni modo,» poco dopo egli si vide comparire davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore di Popolo, se avessi posto piede a terra. Queste cose confidò poi lo egregio conte Bargagli a me e a Giovanni Bertani, ed io le riporto con la maggiore discretezza che posso, e per necessità di difesa; onde io spero ch'egli, gentilissimo com'è, non solo vorrà compatirmi, ma deplorare lo estremo in cui mi trovo di doverle rendere palesi. Alla fine il Governo spediva il piroscafo Giglio a riprendermi con onore, e venivano con esso taluni autori od esecutori del mio non degno arresto. Io gli accolsi come se mai mi avessero fatto oltraggio: arrivammo di notte; il Comandante del Porto attendevami per accompagnarmi a casa; io gli chiesi in grazia di accompagnare lui, e mi ridussi solo alla mia stanza. Gli autori del mio arresto, in parte si erano allontanati; in parte, dubitando della loro sicurezza, si tenevano nascosti; nei loro cervelli balzani già già le proscrizioni sillane attendevano. — Io fui Ministro, e non volli leggere cotesto Processo per non avere motivo di concepire rancore contro coloro che per avventura avessero deposto a mio pregiudizio. Io ebbi il potere, e lo adoperai a difendere, a beneficare, e perfino impiegare quelli che avevano cospirato a mio danno. Se motivo alcuno di ambizione mi fece desiderare il potere, fu questo: trovarmi in parte ove io avessi facoltà di mostrare quanto fossi diverso da quello che gli emuli per vizio di parte mi avevano calunniato.[68] — Prima di usare parole di obbrobrio contro di me, perchè non gittava l'Accusa uno sguardo sopra cotesto Processo? Essa avrebbe veduto che non fu grazia il Decreto del 22 marzo 1848 in quanto a me, ma benigno risguardo all'onore di un uomo atrocemente, quanto indegnamente, offeso. Essa avrebbe appreso, che non fu esatta quando le piacque designarmi come: individuo, che altre volte ha INTERESSATO la Grazia... e le Accuse quando posseggono tanta copia di carte, e di occhi, che le leggono, e di bocche, che referiscono, avrebbero l'obbligo di essere esatte.

      Se l'Accusa avesse udito gli scorticatori di San Bartolommeo muovere querela contro il povero Santo per averlo scorticato, che cos'avrebb'ella detto? In verità, a me sentendo rimproverarmi le sofferte piaghe, parve essere San Bartolommeo accusato di crimenlese per non avere più pelle.....

       Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole del Decreto del 7 gennaio 1851: «che con mezzi riprovevoli ero giunto a impossessarmi del potere.»

       Indice

      Investigando con intenzione nemica la passata mia vita, l'Accusa mi porge occasione ad esporta, fondandomi sopra Documenti e sopra la testimonianza dei miei concittadini. Reduce a Livorno, io trassi vita più solinga che prima non aveva fatto, non cruccioso, ma mesto della ingiuria patita; chè la nuova benevolenza non toglieva l'amarezza dello strazio passato:

      Piaga per allentar d'arco non sana.

      Gli emuli miei, vedendo tanta mansuetudine, la reputarono viltà, e tornarono più baldanzosi che mai a procedermi avversi nelle prossime elezioni, continuando nelle calunnie, che vorrei dire infami, se non fossero state ridicole.[69] Per la quale cosa schivando diventare argomento di litigio, e maledicendo in cuor mio lo infame seme della discordia, che mai non quieta nei petti umani, deliberai di un tratto abbandonare la città e ricovrarmi in qualche appartato asilo.[70] E rallegrato dall'amicizia, splendido delle bellezze della Natura e dell'Arte, io mi ebbi queto asilo nella villa di Scornio. Colà io riposava all'ombra delle antichissime piante, e leniva con gli affetti domestici, le cortesie dell'amico e i cari studii, l'animo offeso, quando lo egregio Niccolò Puccini mi avvisava come la banda cittadina avesse deliberato venire a farmi festa, e come la banda del Borgo non sembrasse disposta a patirla, correndo fra loro emulazione grande, e quasi nemica. Conobbi invidiarmi la fortuna anche cotesto ricovero, onde senza por tempo fra mezzo io mi partii, pauroso sempre che il mio nome diventasse soggetto di contesa, e mi condussi a Firenze. — Intanto accaddero le elezioni in Livorno, e quantunque sommando i voti dei quattro Collegi io ottenessi numero di gran lunga superiore a quello degli altri candidati, pure singolarmente in ogni Collegio lo ebbi minore, e non rimasi eletto. — La operosità non contrariata degli emuli conseguiva un fine per loro desideratissimo, e poichè vedevo che tanto gli soddisfaceva, anche io ne godevo. Adesso la Curia Fiorentina mi scriveva su l'Albo dei suoi Avvocati; e questa larghezza non mi ha ritolto finora, almeno credo. Più tardi l'Accademia della Crusca mi creò Accademico; ma altri pensando forse che in me si avesse a rinnuovare lo esempio di Nabuccodonosor, voglio dire che cadendo di seggio diventassi bestia, mi ha radiato dal ruolo degli Accademici. Deus dedit, Deus abstulit, fiat voluntas Dei! Intanto tre Collegi, San Frediano in Firenze, Dicomano e Rosignano, mi elessero Deputato: estratto a sorte rimasi di Rosignano; nè dal maggio in poi misi più piede in Livorno. Fra la mia patria e me, rimaneva non dirò rancore, ma un cotal poco di ruggine a cagione dei fatti del gennaio; e partendo, io la lasciava in balía degli emuli, i quali la dominavano intera con la Guardia Civica, di cui erano principali e caporioni. Correva il 22 agosto 1848, quando i destini condussero a bordo del Piroscafo l'Achille il Padre Gavazzi a Livorno. Altre volte soggiornò in Toscana. Uomo di spiriti accesissimi era egli, per professione del sacerdozio, per impeto di eloquio e per vasta corporatura potente sopra le turbe, molesto ospite al Ministero nostro. Il Ministero, che si perdeva dietro ai bruscoli e non avvertiva le travi, dapprima volle impedire lo sbarco al Barnabita tribuno; quando il Popolo lo volle in terra, gli concesse e sbarco e transito traverso Toscana per Firenze. La mattina del 23 agosto giungeva col mezzo del telegrafo cotesto Dispaccio a Livorno, e in quella mattina stessa a mezzogiorno il Padre partiva alla volta indicata. Dodici Livornesi lo accompagnavano per fargli onore. Arrivati a Signa, trovarono apparato di Guardia Civica e di Carabinieri commessi a non permettergli il passo per Firenze: andasse a Pistoia, quinci a Bologna. Con la milizia venivano ancora contadini armati. Non sembra che succedessero accoglienze oneste nè liete, conciossiachè vi fossero ingiurie e percosse ricambiate; si disse ancora di una bandiera tricolore arsa; degli accompagnatori, dieci andarono a Firenze, due proseguirono il viaggio per a Bologna col Frate. Il Popolo per queste notizie montò su le furie, ruppe il telegrafo, corse ad armarsi; il Governatore L. Guinigi relegò in Fortezza Nuova, i Dispacci governativi sorprese. Artatamente o a caso, si sparse rumore una mano di soldati muovere contro Livorno; a crescere il tumulto, le sentinelle avanzate scaricano gli schioppi; allora presero a suonare le campane a stormo, il Popolo corse ad armarsi, la Civica occupò le porte; gli Artiglieri disposero in battaglia tre pezzi di artiglieria; ma il Governatore mandava ordine nessun corpo armato s'inoltrasse contro la città, la bandiera supposta arsa tornava sventolante a Livorno, deputati spediti al Principe ne riportavano parole benigne: «Rincrescergli si dubitasse della sua fede e del suo affetto verso Livorno, del quale aveva dato sempre prove non dubbie; non avere mai avuto pensiero di mandare forze contro la città.» Pegni certi di restaurata pace erano quelli: se non che quando ormai pareva sicura, come il destino volle, ecco prorompere più tremendo motivo di guerra. Cadde in alcuni il pensiero malaugurato di dispensare fucili alla Guardia Civica attiva in Porta Murata; il Popolo minuto, che avea sempre sopportato a malincuore trovarsi escluso dalla Guardia, accorre e pretende le armi pur egli. — Una sezione di Civici muove a comporre il subuglio, e vi riusciva, quando il comandante della sezione ordinava facessero fuoco; lo fecero, e tre rimasero morti, quattro feriti, di cui uno dopo poche ore spirava. Il Popolo adesso inferocisce a mille doppii più terribile di prima; i Civici tutti correvano pericolo presentissimo di vita, se molti di loro non si nascondevano, e se l'esortazioni di sacerdoti e di spettabili cittadini non avessero placato gl'incrudeliti animi, persuadendoli a deporre ogni proponimento di privata vendetta, e aspettare il fine del processo, che ormai s'iniziava contro i colpevoli di cotesta immanità. Fu in quella occasione, che me, assente e inconsapevole, posero a formare parte di una Commissione intenta a mansuefare il Popolo e a condurlo a miti consigli,[71] e furono anche spediti uomini a posta in Firenze per far prova di menarmi a Livorno; alla quale istanza io mi ricusai, sì perchè temei la calunnia di provocare

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