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vostra dignità.

      Aveva meco stesso disegnato non interrompere con digressioni il filo del racconto, properando a scavezzacollo verso la fine, come insegna Orazio nella poetica, ma con inestimabile amarezza mi tocca a rompere il proponimento, non già per colpa mia, bensì per contraddire a certe voci che mi odo bisbigliare qui attorno. «Costui, dicono le voci, delira; comprendiamo anco noi che a chi racconta novelle è mestieri fare la parte larga della fantasia, ma spingere fino al mostruoso la immaginazione, questo non patiremo mai. S'intende acqua, ma non tempesta! I vetturini di Livorno, a sentirlo, procedevano sviscerati della libertà nel secolo passato, mentre nel nostro gli stessi signori negozianti e gli altri che vanno per la maggiore in cotesta terra, o non la conoscono o, conosciuta, si affretterebbero a disfarsene come la peggiore delle derrate.» Ora io rispondo: Quanto ai Livornesi del tempo che corre, io non saprei, chè da parecchi anni vivo lontano da casa; ma non ci credo, e mi giova non crederci. Forse qualche sciagurato non aborrì procacciare a' suoi figliuoli perpetuo retaggio d'infamia; ma come un fiore non fa ghirlanda, così nè anche, dove apparisce un diavolo, ecci lo inferno. Ad ogni modo i Livornesi soli accolsero i Tedeschi a cannonate in Toscana; certo nelle difese non durarono nè potevano durare; non importa, non per questo palesarono meno l'odio contro la razza esecrata: e se tu pensi alla comune viltà, quanto fu minore la possa, invece di cavarne materia di biasimo, come fanno taluni codardi maligni, tanto ti parrà più grande il cuore di avere maledetto faccia a faccia un prepotente nemico. Quello che narro del popolo livornese del secolo passato, se non vuolsi credere a me, credetelo ad Ottavio Renucci, che prima fu gesuita e poi galantuomo (trasformazione difficile, ma che pure è talora accaduta); credetelo all'abate Giovacchino Cambiagi, le scritture dei quali (che storie non mi attento dire) io vi prometto farvi toccare proprio con le mani in altra parte di questa storia. Per ora contentatevi così.

      Dunque si metta in sodo, per quello che può valere, come, cento anni sono, il popolo livornese amasse la libertà.

       Indice

      Il signor Boswell, consultato il suo taccuino, si condusse senza sbagliare nella piazza grande: quando fu sopra la crociata del duomo, si girò a destra, e visto di fondo alla lunga strada spuntare parecchi pennoni di bastimenti, avviossi costà con passi accelerati, sicuro del fatto suo. In andando teneva la faccia voltata sopra la spalla sinistra, come le nottole nel volare costumano, e fissa a leggere il numero dipinto sopra gli stipiti delle porte de' casamenti. Di un tratto sta, rilegge il numero e mormora:

      — Senz'altro è qui.

      Guarda meglio, volta la faccia in su e mira una casaccia sciatta, scappata di mano all'architetto tra uno sbadiglio e uno starnuto, con certe nicchie ovali a tutti i piani nel sodo, tra una finestra e l'altra ornato di busti, i quali a tanta lontananza non sapevi distinguere se fossero di marmo o di bronzo o di che cosa si fossero; e peggio ancora non si conosceva se rappresentassero principi di corona o persone di garbo, o se turchi, ebrei o cristian rinnegati. Ai noti segni confermandosi nel suo giudizio, il signor Giacomo, dato un giro alla tabacchiera, ripetè:

      — È qui.

      Ma dove qui? abbacava poi dentro di sè. Da un lato gli si mostra una bottega con la insegna di una immane mignatta di lamiera tinta di verde, la quale vomitava un torrente di bambagine colorita nella robbia in simulacro di sangue e faceva fede lì dentro vendersi le mignatte. Ora pareva al signor Giacomo che un mercante rispettabile (anche a quei tempi in commercio chiamavasi rispettabile chi aveva quattrini, fuori di commercio divo ed augusto, e tuttavia si chiama) non avesse a trovarsi in combutta con le mignatte: e posto eziandio alla più trista che la prima qualità di mercante non facesse ostacolo, per la seconda poi di rispettabile non ci quadrava assolutamente. Dall'opposto lato dentro un'altra bottega, il più innocente dei peccati mortali, sotto la forma di marzapani e di zuccherini, tendeva le reti per uccellare anime al demonio. Quante insidie alla nostra salute! e la nostra umanità è tanto frale! Chi avrebbe mai presagito un dì che Satana, proprio lui, per perdere un'anima cristiana, avesse potuto assumere la figura di confetto parlante? Ci pensino i confessori, ci pensino seriamente e ci provvedano.

      Però, se un mercante rispettabile non poteva avere pratica con le mignatte, molto meno era da credersi tenesse domicilio comune co' marzapani. Tuttavolta, quasi nascosta tra gli sporti delle due botteghe, a cui ci avesse con diligenza atteso, sarebbe riuscito scoprire un'altra porta angusta, nera nera nera poco meno della coscienza di un gesuita o di un moderato, chè ella è tutta una minestra; ma, a quanto appariva, la porta era di bottega; e tuttavolta non ci cascava dubbio, cotesto per lo appunto era il luogo che indicavano i ricordi del signor Boswell. Ora, poichè non ci lesse scritto sopra:

      Uscite di speranza, o voi ch'entrate,

      come su la porta dello inferno (e nello inferno il signor Giacomo non ci credeva; e quando anco ci avesse creduto, egli non ignorava che anco dallo inferno si esce, non fosse altro, agguantandosi ai peli dell'anguinaia del diavolo, a modo che Dante adoperò), il nostro eroe, risoluto, si mise dentro alle segrete cose.

      Inoltrandosi nello andito lungo, a poco poco la luce illanguidì, cassò del tutto, tornò ad apparire annacquata, un po' meno; per ultimo venne a riuscire in una chiostra.

      Chiostra ho detto, e doveva dire campo di battaglia non che museo delle geste e delle glorie del commercio, quivi disposto dalla mano della Memoria in trofeo. Colà il signor Giacomo contemplò botti, damigiane, caratelli incerati, involture di canapetta, brani di stuoie, casse di ogni maniera, fra le quali ne riconobbe parecchie di origine britannica, nobile orgoglio per un cuore inglese! Sul culmine del trofeo, come su l'elmo di quel Niccolino che combattè a Benevento e fu sì infesto al re Manfredi, sedeva un gatto.[1]

      Il gatto da prima comparve degno dell'alto seggio a cui era stato assunto in virtù delle sue zampe (e troppi più che Dio non vorrebbe, per andare in cima, non posseggono cagione migliore di questa) mercè la fronte di bronzo e la immobilità veramente imperiale; e non senza quia dico imperiale, affacciandomisi al pensiero quel Costanzo Cloro, che riputò parte cospicua della sua dignità non soffiarsi mai il naso: se non che ad un tratto sprigionata una zampa dalla coda, che aveva tenuto fino a quel momento inanellata a mazzocchio attorno alle gambe, prima se l'accostò alla bocca e la baciò, poi se la stropicciò a più riprese pel capo disopra l'orecchia, e lungo il muso, quasi intendesse augurare il ben venuto al signor Boswell, secondo il costume degli orientali. Il signor Giacomo, senza rendergli nè anco il saluto, ed in questo non fu cortese, si girò intorno per vedere se incontrasse cosa che lo mettesse su la buona strada: ed ecco pararglisi davanti un cane ed un uomo, se uomo in buona coscienza poteva dirsi costui: berretto, giubba e ogni altra veste color marrone, pelosi quanto pelle di capra, e di vero tutte erano fatte di panno côrso, il quale le donne tramano co' ferri a mano come la maglia delle calze. Costui, che côrso era, aveva i piedi nascosti nella paglia, sopra la quale giaceva supino con le mani sotto il capo a mo' di capezzale ed il berretto tirato su gli occhi; i suoi capelli copiosi si mescolavano con la barba, ed entrambi apparivano coltivati quanto le boscaglie del suo nativo Niolo, e per di più nella tinta, pari al berretto e alle altre vesti; immobile affatto, se non che nella guisa che il fumo del cammino ti assicura che nella capanna perduta in mezzo allo scopeto ci vive l'uomo, i buffi fetidi dell'erba côrsa, che scoppiettando dentro la pipa ardeva, lo manifestavano vivo. Sopra la stessa paglia un cane di pelo corto, bianco brizzolato di rossigno, la coda a ricciolo su la groppa, il muso tra la volpe e il lupo, stava eretto su le zampe, appuntando le brevi orecchie e mostrando due file di denti acuti come lesine. Non brontolavano l'uomo nè il cane, ma pareva tenessero apparecchiate le armi alla zuffa, e con quattro occhi, pari a quattro punte di freccia su la noce della balestra, non lasciavano di seguitare il sopraggiunto in ogni suo moto.

      Però il signor Giacomo cotesti allestimenti non badava o temeva, bensì esitava pensando se, per ottenere risposta profittevole, tornasse meglio voltarsi al cane od all'uomo; ma perchè aveva fretta, e la indagine sarebbe andata per le lunghe, s'indirizzò ad ambedue per via di domanda generale:

      — Il signor Giacomini di Centuri?

      Veramente rispose l'uomo, ma

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