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che unificava tanti visi, tante età, tante condizioni e tante acconciature diverse, questa specie di livello che le più ribelli teste subivano, questa impronta comune cui niuno, entrato nell'aula, poteva sfuggire, produceva una impressione immensa: l'aula sembrava un grande luogo sacro che annientava l'individuo, un recinto che domava l'intelligenza, le volontà e i caratteri, in cui per rialzarsi, per essere uno, bisognava avere il profondo e fervido ardore mistico o l'audacia del sacrilega che rovescia l'altare. E il grande baldacchino reale, tutto rosso scuro, con le pieghe diritte e rigide che tendevano il velluto, con la pesante frangia d'oro e l'aquila d'oro che ne riuniva le pieghe sotto gli artigli, con l'ampia poltrona in una penombra mistica, aveva un aspetto ieratico, come il tabernacolo, come il sacrario, dove una potenza sconfinata si nascondeva.

      A un tratto solo, tutti i deputati furono al loro posto, in piedi, le tribune caddero in un grande silenzio, mentre fuori le trombe squillanti dei bersaglieri sonavano la fanfara reale. Poi un lunghissimo applauso scoppiò, applauso sordo e prolungato di mani inguantate: le signore, in piedi, applaudivano anche esse, piegandosi sulle spalle dei deputati, per meglio vedere. Ritta nella tribuna diplomatica, circondata dalle sue dame, la Regina salutava in giro: e la bianchezza perlacea del volto vinceva la intonazione legnosa del fondo. Ella appariva fresca e giovane, tutta serena, sotto la falda di paglia dorata del suo cappello, che un piumetto color fragola adornava; e mentre sembrava finita l'acclamazione, e la Regina sedeva, più innanzi del suo squadrone di dame, tutto il pubblico fu ripreso da un riflusso di ammirazione per quella poetica figura, un nuovo applauso strepitoso, assordante, salutò ancora la Regina. E un'agitazione regnava dovunque: sulla scalea a destra, le signore si desolavano, erano sotto la tribuna del corpo diplomatico, non vedevano la Regina; quelle della presidenza, erano felici, non vedevano il Re, è vero, pur troppo, ma vedevano la Regina, a due metri di distanza; quelle della scalea a sinistra perdevano una metà dello spettacolo, tutto il corpo diplomatico, in grande uniforme nella tribuna dei senatori, con le mogli degli ambasciatori e dei ministri italiani — e le tribune del centro, della stampa, del pubblico, dei militari, degli impiegati, vedevano tutto, ma erano lontane; l'armeggio degli occhialini era continuo. La folla, presa da una nervosità, si agitava, si piegava, a destra, a sinistra; dei dialoghi di giornalisti si udivano sopra le teste: — Vi era l'ambasciatore di Germania? — Sì, eccolo là, con la sua faccia bonaria, dal mustacchio bianco e dagli occhi dolci — Quella dama vestita di violetto, con grandi occhi neri, chi era dunque, dietro donna Vittoria Colonna? — Donna Lavinia Taverna, una Piombino. E tutte le signore erano vinte da un esaltamento, dei nomi femminili erano susurrati, dei brani di descrizione di toilette erano forniti: quelle più in vista cercavano di essere salutate dalle mogli dei ministri, dalle ambasciatrici, dalle dame: e un mormorìo crescente, un chiedere, un rispondere, un discutere sottovoce, facevano come il ronzio di mille mosconi nell'aria dell'aula.

      Il Re entrò, improvvisamente: non era giunto il suono della marcia reale. Egli comparve dalla porta di destra, in mezzo alla sua Casa, ai ministri, ai dieci deputati che lo avevano ricevuto, e in tre passi fu sotto al baldacchino, avanti alla poltrona: due o tre volte si voltò a destra, a sinistra, con quei suoi scatti nervosi, di temperamento irrequieto e mal represso. L'assemblea e il pubblico lo salutarono, ed egli rispose, agitando l'elmo dorato dall'alto pennacchio fluente e bianco, tenendo nella mano destra un rotoletto di carta. Sulla giubba di generale aveva solo gli ordini militari stranieri e la medaglia al valor militare. E con l'uniforme stretta e il goletto bianco, i calzoni strettissimi, nell'ombra della cupola rossa, con l'elmo appoggiato sul polso e l'attitudine di un soldato alla posizione, egli sembrava una figura eccezionalmente militare, magra, bruna, robusta, sempre pronta a salire a cavallo, sempre disposta a dormire sotto la tenda: sembrava una di quelle figure degli antichi ritratti di principi soldati, dai fieri occhi aquilini, dal viso pallido che stringono nel pugno una pergamena arrotolata, dove è disegnato il piano di una fortificazione. Il vecchio principe di Savoia-Carignano, zio del re, grasso e calvo, si mise presso la poltrona a destra: appoggiava la persona stracca e floscia al bracciuolo della poltrona, ma non sedeva, per rispetto; il giovane duca di Genova, fratello della Regina e cugino del Re, prese posto, a sinistra: e nell'emiciclo, a destra il gruppo dei ministri; a sinistra la Casa reale.

      Nel silenzio universale, si elevò la voce un po' rauca del re: e certo, molti, fra quegli uomini politici dovettero trasalire, ricordando, in quella assemblea stessa, un'altra voce, un po' velata, un po' stridula, la voce fatta per comandare nelle battaglie e che pronunziava le leali parole, con cui egli suggellava il patto nazionale. E tutte le facce dei deputati si erano subitaneamente impensierite, rimanevano immote, con gli occhi fissi in quello del Re: tutto il pubblico femminile taceva, come colpito da un improvviso senso di rispetto. Nel silenzio profondo, in quella immobilità di tutta una folla, si udiva perfino il respiro del Re, fra una frase e un'altra di quel messaggio reale; e la voce in cui pareva vibrasse quella paterna, aveva certi scoppi improvvisi, certi rilievi bizzarri d'intonazione. La Regina, dalla tribuna diplomatica, ascoltava, intensamente, senza sorridere, col bel viso piegato e concentrato nella attenzione: le dame ascoltavano, senza batter palpebra; la tribuna degli ambasciatori, tutta, avea l'aria sorridente di chi già sa; le tribune del pubblico, attorno attorno, ascoltavano e ogni tanto, nell'assemblea, correva come un fremito di soddisfazione: il discorso fu interrotto due volte dagli applausi. A tratti, qualche parola più acuta pareva s'involasse, alata, sotto il lucernario: la pace... l'amministrazione della giustizia... il riscatto finanziario... ma subito la voce si abbassava, come se il Re disdegnasse l'applauso finale che corona le frasi; e in fondo egli si affrettò, come se fosse stanco, le ultime parole furono mormorate, più che lette: egli riprese subito il suo elmo dalla poltrona, ove lo aveva deposto, mentre l'assemblea gridava: Viva il re! Ma quella attenzione aveva teso gli animi e un senso di turbamento li invadeva: l'avvenimento di quella giornata, che prima era sembrato uno spettacolo curioso, ora si ingrandiva di proporzioni: la parola reale, in quella unica volta che il re costituzionale parla in pubblico, dice la sua volontà e le sue intenzioni, diventava una promessa solenne. Qualche signora più sensibile aveva un piccolo sudor freddo alle tempie: altre si davano dei colpettini di ventaglio sulla mano, gli occhi distratti, mormorando: è bello, è bello: e le più romantiche guardavano con gli occhi assorti la Regina, a discernerne la emozione.

      Poi il giuramento cominciò. Il vecchio Depretis si era avanzato un poco e aveva letta la formola per i senatori e i deputati, scandendo le parole come se avesse voluto farle imprimere nella mente di coloro che ascoltavano. La massa dei deputati e dei senatori si profilava nera e bianca, dall'alto in basso dei settori: massa di teste energiche e di teste miserabili, di occhi scintillanti e di sguardi di pesce morto, di crani calvi e lucidi e di criniere forti, leonine, massa raggruppata al primo banco, in un semicerchio amplissimo: e sembrava che fosse financo troppo angusto quello spazio per la forza erompente di quelle volontà e di quei cervelli.

      Il Re squadrava la rappresentanza nazionale; frattanto, il primo senatore, il duca di Genova, giurò, marinarescamente, con una voce vibrata, con un gesto energico: lo applaudirono. Poi giurarono otto nuovi senatori e un movimento vi fu solo al giuramento di fedeltà del grande latinista piemontese, un clericale. Quello che interessava era il giuramento dei deputati. Depretis ne diceva il nome e il cognome, e aspettava un momentino; e da un banco una voce fioca o una voce sonora rispondeva: giuro. In quel minuto di attesa, gli animi restavano sospesi; il Re cercava con gli occhi colui che doveva giurare.

      I vecchi patrioti giuravano militarmente, mettendo la mano nuda sul petto; la loro fede era provata: gli avvocati giuravano con una voce sottile e un tono acuto. Quando arrivò al proprio nome, Depretis cavò la mano destra di sotto l'uniforme ministeriale, la stese e giurò: l'assemblea rise del vecchio astuto che la dominava. Il ministro continuò a dire i nomi, e nell'attenzione generale, le voci commosse e le voci tranquille si facevano udire: ora come sorgenti dalle viscere della terra, ora come discendenti dal lucernario. I vecchi parlamentari giuravano, stendendo semplicemente la mano e pronunziando sottovoce la parola: i deputati radicali, che si erano lungamente preparati a quel passo difficile, giuravano presto presto, come per sbarazzarsi di un peso. E le signore ascoltavano, tutte commosse, tutte prese da un'invincibile tenerezza, esse che hanno inventato ogni sorta di giuramenti falsi, vinte da una emozione innanzi a quelle promesse così solenni che cinquecento uomini facevano a un solo uomo, e a tutto il paese.

      Ma i deputati nuovi erano i più turbati: quell'apparato reale e parlamentare, quel pubblico femminile

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