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piccini, rotondi, la guardava di sotto in su, e si lagnava, con un collega, un bel signore alto, dal mustacchio biondastro brizzolato, dall'aria grande di sciocco decoroso, che la Corte glielo faceva per dispetto: deputato democratico, dell'estrema sinistra, veniva sempre fuori nel sorteggio dei deputati che dovevano ricevere il Re e la Regina alla porta del Parlamento. Capite, lui, deputato democratico, dover fare il saluto, la riverenza, offrire il braccio ad una dama di Corte che non si conosce, che non vi parla, a cui non si sa che cosa dire.

      «Le donne eleganti mi piacciono», mormorò il deputato, col suo contegno di stupido soddisfatto.

      «Sarà; ma quando si pensa che quel vestito è fatto coi denari dei contribuenti...» ribattè l'onorevole grassotto repubblicano.

      E uscirono, guardando salire in carrozza la bella femmina dipinta: fra le sfioccature di trina della sua cravatta, ella portava un bigliettino roseo: andava a un'altra tribuna, ella, a una tribuna distinta.

      «La vendetta del proletariato», disse il deputato democratico, tutto compiaciuto.

      Ora, nella bottega di guanti, la gente si accalcava. Erano facce d'impiegati, dalla barba rasa di fresco, dalle cravatte bianche stirate in casa, dai soprabiti pepe e sale, fumo di cannone, carbonella, sotto cui i calzoni neri avevano un luccicore di panno conservato: erano facce scialbe di alti funzionari, a cui il nastro verde dei SS. Maurizio e Lazzaro dava un colorito anche più cadaverico: erano ogni sorta di tube antiquate, a cui un colpo di ferro aveva dato un aspetto giovanile.

      La guantaia bionda e ridente non si stancava, non perdeva mai la testa, si chinava sempre amabilmente, rispondeva con una cortesia di venditrice signorile settentrionale. Aveva consumata la sua provvisione di cravatte bianche, e quando arrivò l'onorevole di Santamarta, un siciliano biondo, dall'aria mefistofelica, a chiederne una, ella si desolò: il marchese di Santamarta era un cliente di tutto l'anno. Proprio in quel momento aveva finite le cravatte bianche: ma il Salvi, qui, in Piazza di Sciarra, ne doveva avere. Il marchesino biondo ascoltava, un po' indolente, con gli occhi azzurri femminili un po' smorti fra le palpebre, e il sorrisetto scettico.

      «E la signora marchesa era in Roma, si recava naturalmente al Parlamento?».

      «Si..., credo», rispondeva l'onorevole marchese, «credo che vi andrà con sua sorella. Sono uscito presto di casa, per questa cravatta. Che fastidio, sempre, queste rappresentazioni...».

      E stracco, come se avesse compiuta una gran fatica, e un'altra insopportabile gliene restasse da fare, se ne andò.

      «Da questo Salvi, dite?» domandò dalla porta, con una voce seccata.

      «Salvi, in Piazza Sciarra».

      Per un momento, la bottega restò vuota. Le giovanette si riposavano, in piedi, con un pallore sul volto, fra le scatole aperte dei guanti e i fasci ammucchiati sul marmo; la stessa padrona era presa da un minuto di lassezza, immobile, appoggiata con le mani al banco. Le pareva di essere in una di quelle ardenti sere di carnevale, delle ultime, in cui Roma ha tre balli aristocratici, quattro veglioni pubblici e otto o dieci ricevimenti; e nella bottega è un affollarsi di giovanotti, di modiste, di servitori, di cameriere, di mariti disperati, di amanti frettolosi. Ma una famiglia di salernitani, padre, madre e figliuola, il padre impiegato all'Interno, entrarono, e chiesero un paio di guanti per la ragazza. Essi spiegarono subito che andavano alla Camera, che i biglietti li avevano avuti, uno dal loro deputato barone Nicotera, il barone, diceva semplicemente la madre; un altro lo avevano avuto da don Filippo Leale, l'onorevole Leale, quello con la barba nera, che era stato segretario generale, e il terzo biglietto lo aveva procurato un usciere della Camera, del loro paese, un brav'uomo, con cinque medaglie: oh! i biglietti non si avevano facilmente, ve n'era una caccia! una signora, zia di un deputato, che essi conoscevano, non aveva potuto averlo. Erano un po' preoccupati, visto il colore diverso dei tre biglietti, tre tribune diverse: ma via, non si sarebbero perduti nel Parlamento.

      «Credo che bisognerà che vadano per tre vie diverse,» osservò placidamente la guantaia, a quel profluvio di parole, calzando a stento la mano rossa e paffuta della ragazza. Il papà guardò sua moglie, con una cera turbata.

      Adesso, la bottega si empiva di nuovo, di gente frettolosa, nervosa, che non poteva aspettare, che batteva i piedi dall'impazienza, che lacerava i guanti per metterli presto. Davanti al banco era una doppia fila di avventori, che si accalcavano gli uni sugli altri: sul banco una grande confusione di scatole aperte, uno sfasciamento di mucchi di guanti: un odore forte di pelle, quell'acuto odore tutto femminile che ubbriaca.

      Il gaio sole autunnale, in quella mattinata tutta gioconda, saliva sulle case di via della Colonna, sulle case di via degli Orfanelli, e illuminava di traverso Piazza Colonna: la colonna Antonina pareva nera e vecchia in quello spolverio di luce bionda che la circondava, e si delineava, tutta raggricchiata, come gobba, sulla facciata rossa del palazzo di Piombino.

      Nell'aria limpida era come uno scintillio di atomi dorati. Non spirava un'aura di vento: una dolcezza immobile avvolgeva le strade e le case, un ambiente letificato di sole. Dal liquorista Ronzi e Singer, al Club delle Cacce, al grande balcone di donna Teresa Boncompagni, principessa di Venosa e dama della Regina, al Circolo Nazionale, le bandiere tricolori pendevano spiegate: all'angolo del palazzo Chigi, sul balcone dell'ambasciata austriaca, le due bandiere si univano, fraternamente. Nella nitidezza della luce, in cui tutto pareva vibrasse, a contorni precisi e taglienti, i tre colori, vividi, gittavano una nota acuta, allegrissima: e il tono giallo del sabbione sparso per il Corso e per la salita di Piazza Colonna sino al Palazzo Montecitorio, si rinforzava. Sulla terrazza del Circolo Nazionale, era una fittezza di ombrellini rossi, bianchi, azzurri, come imbionditi dal sole. Dai due lati del Corso, da Via Cacciabove, da Via della Missione, da Via Bergamaschi, era un accorrere continuo di gente, a frotte, a gruppi un luccicare di tube nere, uno scintillio di spalline dorate, un movimento ondeggiante di piume bianche e rosee, sui cappelli femminili.

      Alle nove e mezzo il cordone militare era già a tutti gli sbocchi, e salendo verso Montecitorio, si arrotondava attorno all'obelisco sino agli Uffici del Vicario. A ogni sbocco era un continuo parlamentare fra gli ufficiali e coloro che volevano passare senza biglietto: ognuno di loro cercava un deputato: eccolo, lo vedeva sotto l'atrio del Parlamento, gli faceva dei cenni, ma che! Quello non si voltava! Dietro il cordone, da tutte le parti, la folla aspettatrice si assiepava, profonda, iridescente nella chiarezza mattinale; qua e là un abito rosso femminile, un abito bianco facevano macchia. Di qua dal cordone era un grande spazio libero, innanzi al portone, tutto cosparso di sabbia: ogni tanto qualche signore dal soprabito aperto, qualche signora in elegante abito di mattina, lo attraversavano, a piedi, lentamente per farsi meglio vedere, discorrendo fra loro, sentendo il piacere di sapersi invidiati dalla folla senza biglietto. Per un momento, vicino ai quattro scalini del portone, vi fu un gruppo di tre signore: una, vestita di nero, brillava tutta, al sole, di perline nere, una corazza lucidissima le imprigionava il busto: l'altra vestita di un bigio delicato, aveva un velo bianco sul viso: la terza era vestita di quell'azzurro ferrigno, allora in moda, elettrico, tutte tre si erano incontrate sulla soglia, si salutavano, si prodigavano le cortesie, ridevano, s'inchinavano, inarcate sui loro stivaletti dorati, sentendosi guardate dalla gente, ammirate, invidiate, prolungando quel minuto di piacere; poi, l'una dopo l'altra, scomparvero dentro Montecitorio. Come l'ora si approssimava, la folla si pigiava da tutte le parti, e aveva come un moto di marea, un flusso e riflusso che andava a battere contro il muro del cordone militare. Tutte le finestre dell'Albergo Milano erano gremite di teste; alle soffitte comparivano le teste arricciate dei camerieri e le cuffie bianche delle cameriere; i grandi finestroni della Pensione dell'Unione, le piccole finestre basse del Fanfulla, le finestre del palazzo Wedekind, avevano tre, quattro file di persone, le une buttate sulle altre: e in tutte le vie adiacenti, la piazzetta degli Orfanelli, la viottola della Guglia, gli Uffici del Vicario, i due capi della Via della Missione, era ancora un brulichìo di persone ai balconi, alle terrazze, alle finestre. Sulle sedie, sui tavolini del liquorista Aragno, delle donne erano salite.

      Intanto, come l'ora della solenne apertura si approssimava, una fila di persone, d'invitati, attraversa lo spazio libero, nel sole, facendo scricchiolare il sabbione: ogni tanto, a un occhiello, luccicava una filza di decorazioni. Le carrozze salivano al trotto dal Corso, senza nessun rumore di ruote, giravano attorno all'obelisco,

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