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       Matilde Serao

      La conquista di Roma

      Pubblicato da Good Press, 2020

       [email protected]

      EAN 4064066070885

       PARTE PRIMA

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       PARTE SECONDA

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       PARTE TERZA

       I.

       II.

       III.

       IV.

       V.

       VI.

       VII.

       Indice

       Indice

      Il treno si fermò.

      — Capua; Capua. — gridarono tre o quattro voci, monotonamente, nella notte.

      S'udì uno strepito di sciabole trascinate e un vivo parlottare fra lombardo e piemontese: un gruppo di ufficialetti, tanto per finire la serata, era venuto a vedere il passaggio del treno notturno Napoli-Roma. Mentre il conduttore chiacchierava, sommesso, col capo-stazione, che gli dava una commissione per Caianiello, e il postino tendeva un sacco di tela pieno di lettere all'impiegato postale ambulante, gli ufficiali, discorrendo fra loro e facendo, per abitudine, risonare i loro speroni, guardavano se qualcuno salisse o scendesse, sbirciavano dagli sportelli aperti se apparisse qualche bel visetto di donna o la faccia di qualche amico. Ma molti sportelli restavano chiusi, con le tendine oscure tese sui vetri, da cui una luce fioca di lampada velata traspariva, quasi uscendo da un'alcova dove già il sonno avesse vinto i viaggiatori: da quelli aperti si scorgevano, nella penombra, dei corpi sdraiati, in un ammasso bruno di coperte, di mantelli e di scialli.

      «Dormono tutti», disse un ufficiale: «sarebbe meglio andare a letto».

      «Questi saranno due sposini», soggiunse un altro, leggendo sopra uno sportello: riservato.

      E poichè le tendine non erano abbassate, l'ufficiale che ardeva di curiosità giovanile saltò sul predellino, e accostò il volto al cristallo: ma discese subito, deluso, stringendosi nelle spalle.

      «È un uomo solo», mormorò: «un deputato, certo; dorme anche lui».

      Ma l'uomo solo non dormiva. Era lungo disteso sul divano, con la testa appoggiata al bracciale di mezzo, un braccio dietro la nuca e la mano nei capelli: l'altra mano si perdeva nello sparato dell'abito: gli occhi chiusi. Pure, il viso non aveva quella espressione molle dei muscoli che riposano, quella quietezza grave dei lineamenti umani nel sonno: invece, in tutte le linee, vi era la contrazione del pensiero. Quando il treno in partenza ebbe passato il ponte sul Volturno, e s'internò nella campagna deserta, nera, l'uomo riaprì gli occhi, cercò di mutar posizione per potersi addormentare più facilmente. Ma il rumore del treno, sempre uguale e continuo, gli martellava nella testa. Ogni tanto, nell'ombra, una casa colonica, un villino, una casetta cantoniera, sorgevano, oscurissime sul fondo oscuro: un filo sottile di luce trapelava dalle fessure, una lanternina accesa faceva come un circolo danzante di fiammelle, dinnanzi al treno che passava.

      Egli pensò fosse il freddo che gl'impediva di dormire. Assuefatto alla mitezza delle notti meridionali, non avendo l'abitudine di viaggiare, era partito con un semplice e leggiero soprabito, senza coperta, senza sciallo, con una piccola valigia e un baule che lo seguiva, al bagagliaio. L'importante, per lui, non erano le vesti, nè le carte, nè i libri, nè la biancheria: era quella medaglina d'oro, prezioso amuleto, che gli pendeva dalla catenella dell'orologio. Dal giorno che l'aveva avuta, richiesta dalla provincia, per una eccezione, al questore della Camera, le dita correvano a toccarla, leggiermente, come per una macchinale carezza; e nei momenti in cui si trovava solo, la stringeva nella palma della mano, sino a farne restare il rosso sulla pelle. Per avere il vagone riservato, l'aveva mostrata al capo-stazione, chinando gli occhi, stringendo le labbra, quasi a reprimere uno sguardo di trionfo e un sorriso di compiacenza: e dal principio del viaggio la teneva in mano, come se temesse di perderla, comunicandole il calore della sua epidermide che bruciava. Ed era così acuto il senso di piacere che gli dava quel contatto e quella possessione, che sentiva, delicatamente, tutte le asperità e le concavità del metallo — e sentiva, sotto le dita, la cifra e la parola:

      XIV Legislatura

      Sul rovescio, un nome, un cognome, la presa di possesso:

      FRANCESCO SANGIORGIO

       Con le mani calde, rabbrividiva di freddo.

      Si levò e andò verso lo sportello. Ora il treno sfilava in aperta campagna, ma il suo rumore era più sordo: pareva che le ruote fossero state unte di olio, e scivolassero chetamente sulle rotaie, per accompagnare, senza turbarlo, il sonno dei viaggiatori. Dirimpetto, sopra un'alta proda nera, si stampavano, fuggendo, gli sportelli luminosi: non un'ombra dietro i cristalli. La grande casa dormiente correva nella notte, come mossa da una volontà ferrea, ardente, che trasportasse seco tutte quelle volontà inerti nel sonno.

      — Dormiamo, — pensò l'onorevole Sangiorgio.

      Sdraiatosi di nuovo, cercò di assopirsi. Ma il nome di Sparanise, detto sottovoce, due o tre volte, alla fermata, gli rammentò il piccolo e povero paese di Basilicata, onde veniva, che insieme con venti altri poverissimi villaggi, gli aveva dato tutti

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