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per il vinto:

      — Non gli lascerei toccare il mio collo se in gola avessi dell’oro.

      Si sentiva tranquillo e contento di sé ora che sapeva quello che a lui mancava in confronto dei suoi simili. Non era lui l’inferiore come per tanto tempo aveva creduto. Egli poteva giudicare gli altri dall’alto, serenamente, perché si era trovato anche lui in quella lotta e sapeva che cosa fosse. Provava una compassione commossa tanto per i vinti quanto per i vincitori.

      Era tanto convinto della giustezza dei proprii sentimenti che a volte gli pareva cosa facile convincer altri.

      Una sera si trovò solo in tinello con Lucia. Quella era veramente una poveretta che abbisognava di consolazione. Il dolore le aveva mutato la fisonomia e le abitudini. Non avendo più continuamente rivolto il pensiero a rattoppare e abbellire i suoi vestiti, le misere stoffe tradivano i danni causati dal tempo i quali prima erano stati abilmente mascherati, e sul corpo magro e poco elegante pendeva la gonna come da un attaccapanni e la vita non arrivava mai a mostrare la forma, per quanto magra non disgraziata. Lucia piangeva di spesso e talvolta a provocare le sue lagrime bastava che la madre le rammentasse il suo dolore rimproverandole d’essere triste e trascurata. Poi, di solito, vedendola piangere, prima di commoversi con lei, la signora Lanucci la sgridava, dichiarava che Gralli non meritava lagrime e ch’era un gobbo imbecille. Lucia stessa non faceva un segreto della causa del suo dolore; non ne aveva mai parlato dinanzi ad Alfonso, ma non aveva avuto il coraggio di protestare quando altri ne parlava.

      Non era possibile di consolare quella poveretta? Volle provarvisi. Le si sedette accanto e le parlò con grande dolcezza, con l’accento della sincerità, e ben presto commosso gli parve che la fanciulla dovesse seguirlo all’altezza a cui tentava di portarla, e che la salita dovesse esserle resa facile dal sentimento da cui egli si sentiva invaso.

      Le parlò delle sue lunghe osservazioni sulla vita e come avesse trovato ch’erano sciocche le nostre gioie e sciocchi i nostri dolori. Le rammentò gl’insegnamenti che certamente i preti e i maestri avevano dato anche a lei! La vita aveva il suo valore per tutt’altra cosa che per quella per cui il volgo l’amava. I preti dicevano questa verità troppo freddamente e perciò non veniva creduta, ma era vera, profondamente vera. All’accorgersene ch’era così, le raccontò, egli aveva provata una grande sorpresa. Non era retorica dei preti e dei maestri quella, era verità! L’equilibrio nella nostra vita, un’esistenza laboriosa, per quanto con scopi modesti, valeva più che tutte le felicità che potevano dare la ricchezza e l’amore. La tranquillità della coscienza era l’elemento più importante per la felicità. Ella non doveva credere che chi l’aveva resa disgraziata potesse godere di una grande felicità, perché il rimorso, la mancanza di soddisfazione di se stesso, era la massima delle sventure. Ma questo non doveva importarle, vivesse lui felice come poteva, da ciò ella non veniva danneggiata. Perché si vedeva disgraziata? Poteva vivere tranquilla accanto alla madre, dimostrarle l’affetto di cui tanto abbisognava e si lagnava? Non bastava? La semplicità dei costumi era felicità, era felicità la bontà ed era felicità la pace. E poi niente altro.

      Ella non aveva compreso perfettamente, e certo quel poco che aveva compreso non la convinceva, ma lo ammirava vedendolo convinto e commosso per quelle idee, e l’enorme esclusione con cui egli aveva chiuso la sua predica la fece rimanere a bocca aperta. Per lui invece quel discorso era stato di maggior importanza di quanto avrebbe potuto prevedere; aveva terminato col convincersi. Giammai non era stato conscio con tanta chiarezza dei sentimenti che da sì lungo tempo fervevano nel suo animo. La sorpresa di sentirsi tanto lieto e tanto tranquillo gl’impedì di dolersi di non essere giunto a migliore risultato con Lucia. Ella gli aveva gettato uno sguardo che significava tutt’altro che rinunzia. Era pericoloso parlare con troppo calore a quella ragazza.

      Ora sapeva perché aveva rinunziato ad Annetta. Non aveva nulla da rimproverarsi perché aveva agito secondo la propria natura ch’egli non ancora aveva conosciuto. Era bene sapere finalmente i moventi direttivi di quell’organismo che ogni giorno gli aveva apportato delle sorprese. Conoscendoli egli ora poteva risparmiarsi altre deviazioni da quella via che la natura gli aveva imposta: una via aggradevole, facile e senza meta.

      Volle essere più rassegnato nelle posizioni false e dolorose in cui gli toccò di trovarsi ancora di spesso. Non che riconoscesse di venir giustamente punito, ma si confortava col pensiero che ben presto lo si sarebbe dimenticato e che da parte sua più mai non avrebbe compromessa la propria pace.

      Prarchi desiderò ch’egli vedesse Fumigi e lo pregò di andare con lui una mattina al caffè della Stazione ove il povero ammalato passava il suo tempo a copiare giornali. Gli fece vedere uno scritto di Fumigi, documento prezioso ch’egli portava con sé. Era un margine staccato da qualche giornale, riempito da segni con matita fatti con forza fino a stracciare la carta. Alcune lettere erano in stampa e capovolte, altre fatte in corsivo, ma la loro forma era soltanto approssimativamente giusta, mentre le stampate erano copiate con esattezza.

      Bisognò risolversi di andare a vedere l’ammalato. Prarchi ci teneva come se la malattia fosse stata opera sua e Fumigi una bestia educata da lui; dimostrando di apportarvi poco interesse Alfonso temeva di offenderlo.

      Quando una mattina si trovò avviato con Prarchi verso il caffè, costui gli comunicò che probabilmente ci avrebbero trovato anche Macario, il quale ogni giorno faceva una visita a suo cugino. Anche quell’incontro sembrava ad Alfonso un nuovo passo verso la quiete; fra poco avrebbe saputo che cosa dovesse attendersi da quella parte. Disaggradevole era non trovarsi preparato a quest’incontro, e mentre Prarchi continuava a parlargli di Fumigi, egli andava ragionando sul contegno da tenere con Macario. Gli sarebbe stato facile dimostrargli la solita grande simpatia, starlo a udire con tutt’attenzione quando parlava, infine congratularsi con lui per la promissione con Annetta, a quanto ne diceva Prarchi, da pochi giorni ufficiale. Egli non odiava Macario, e questa finzione gli sembrò non dovesse costargli grande sforzo.

      Era quello il contegno suggerito dalle circostanze. Probabilmente Macario non sapeva nulla e il suo contegno nulla doveva apprendergli, ma anche se Annetta, come era suo dovere, tutto gli avesse raccontato, Macario si sarebbe guardato dal lasciarlo capire, e per quanto avesse avuto a soffrirne avrebbe cercato d’imitare il contegno di Alfonso di cui gli sarebbe stato grato. Ma nella breve passeggiata Alfonso trovò il tempo di sognare che Macario, vedendolo, trascinato dall’odio, lo affrontasse pubblicamente come nemico. Era ammissibile! Poteva aver perdonato ad Annetta, per soddisfare al suo amore e al suo interesse, ma soffrire e non saper vincersi alla vista di colui ch’egli riteneva essere il principale colpevole.

      Intanto Prarchi sparlava dei Maller. Davano dei denari a Fumigi, ma questo era ben poco. Lo avevano lasciato viaggiare in compagnia di un infermiere mentre sarebbe stato loro dovere di farlo accompagnare da qualcuno di famiglia.

      — Da quell’imbecille di Federico per esempio.

      Il fratello di Annetta era ritornato in città da due mesi e non faceva altro che passeggiare per le vie vestito all’ultima moda di Parigi con una giacca larga e corta e i calzoni stretti che svelavano le forme stecchite delle sue gambe. Alfonso non lo aveva ancora visto.

      Attraversarono la prima stanza del caffè, un bel locale ma con le tappezzerie ordinarie in colori vivaci non ancora abbrunati dal tempo. Per una piccola porta mascherata da una tenda verde entrarono nell’altra stanza oblunga che bastava al bigliardo e al posto per giuocarvi.

      Non v’era che Fumigi seduto accanto ad una finestra e leggendo un giornale con tale attenzione che non s’accorse dei nuovi venuti. Soltanto allorché Prarchi gli toccò la spalla egli si volse senza fretta e esaminò a lungo prima Prarchi e poi Alfonso con un sorriso da ebete soltanto perché continuo e senza causa, mentre del resto era il sorriso solito di Fumigi alquanto inerte e pallido. Il volto era più scarno, ma la figurina, almeno vista seduta, sembrava non aver perduto nulla della sua dirittezza. Masticava e Alfonso credette che avesse qualche cosa in bocca; li guardava e parve volesse parlare, ma poi dimenticò la loro presenza e volle rimettersi a leggere con premura convulsa.

      — Signor Fumigi! — disse Prarchi ad alta voce e scotendolo, — non riconosce questo signore?

      Fumigi guardò a lungo Alfonso e dava ad ogni tratto

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