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continuità, seccanti, quel giorno non si sentiva che il passo o la voce di qualche singolo individuo e a riprese, con lunghi intervalli. Il cortile sul quale dava la finestra della stanza era sempre muto.

      La sua solitudine non durò a lungo. Si picchiò alla porta ed egli sorpreso e spaventato si alzò gridando di entrare.

      Era una donna, probabilmente una sartina; sulla testa bionda aveva un velo nero e il vestito appariva alquanto uso ma decente e portato con cura e buon gusto. Ella lo guardò attendendosi di venir riconosciuta.

      — Non mi conosce più? — e rimase esitante accanto alla porta forse già dolente d’essere venuta in quel luogo. — Le fui presentata dal signor White.

      — Ah! la signora White! — gridò egli sorpreso e offrendole una sedia. Adesso si rammentava della figura bionda e pallida che aveva vista china al telaio in casa di White. Volle togliersi dall’imbarazzo: — Mi scusi se non la riconobbi, ma ne è colpa quel velo che le vedo per la prima volta in testa e che le muta la fisonomia.

      Ella ebbe un sorriso che non era soltanto forzato ma anche negletto; non aveva la mente rivolta a prepararlo. Gli disse che veniva da lui perché riteneva ch’egli sapesse qualche cosa di White suo amico. Parlava alla perfezione il dialetto.

      — Non scrive a lei? — chiese Alfonso molto sorpreso.

      Egli non s’era rammentato che, partito White, la sua donna era rimasta. Una bella figura quella della francese. Alta, ritta, dalle forme precise; delle linee femminili su un corpo virile.

      — Le ultime lettere le ricevetti da Marsiglia — gli disse essa arrossendo.

      Completata dal suo rossore, quella frase era una confessione, il racconto come White aveva rotto senza riguardi quella relazione da un giorno all’altro, e questo modo faceva apparire per molto leggeri i rapporti ch’erano esistiti fra di loro.

      Egli finse di non aver compreso:

      — Forse non sarà ancora giunto a destinazione!

      Sapeva bene che in quel tempo White avrebbe potuto fare il giro del mondo.

      — Oh! so che vi è giunto perché da altra parte, da suo fratello, da Londra, mi venne annunziato. Lei non sa ove ora si trovi?

      Per il bisogno di dimostrare la sua partecipazione, Alfonso tradì quanto aveva compreso.

      — Non lo so e mi dispiace, — disse con violenza, — perché se lo sapessi glielo direi ad onta della mia amicizia per lui.

      Prendeva con tanta risolutezza partito per essa perché gli sembrava di trovare qualche somiglianza fra il dolore di quella signora e quello di Lucia.

      White, dall’aspetto tanto signorile, faceva un’azione peggiore di quella di Gralli.

      Gli occhi azzurri della signora si riempirono di lagrime che però non traboccarono; senza che le avesse rasciugate scomparirono riassorbite. Ella non fece delle confidenze, ma parlò come se ad Alfonso avesse già raccontato tutto.

      — Egli crede di soddisfare ad ogni suo dovere verso di me assegnandomi una pensione. — Rizzò il capo con fierezza. — Spero di guadagnare abbastanza fra qualche mese da poter fare a meno anche di quella.

      Entrò Alchieri cantando, lieto della passeggiata fatta. Vedendo la signora si confuse e chiese scusa.

      Erano finite le confidenze tanto bene avviate.

      Alfonso la trattenne ancora alla porta per consigliarle di rivolgersi a Maller il quale doveva sapere ove White si trovasse. La bellezza e la fierezza di quella donna facevano aumentare in lui il desiderio di aiutarla.

      Ella rispose ch’era già stata da Maller e che le aveva dichiarato di non saperne nulla.

      — Essi sono d’accordo, — soggiunse con disprezzo. Poi, forse umiliata di aver destato la compassione che Alfonso le dimostrava, aggiunse: — Del resto non capisco neppur io perché cerchi di avere quest’indirizzo. Non saprei farne altro che lanciarvi qualche insolenza, cosa inutile perché egli deve sapere che cosa gli direi se potessi.

      Alfonso sarebbe rimasto più a lungo commosso da questa strana visita se, andandosene, la signora White, come egli si ostinava a chiamarla, non gli avesse fatto un saluto freddo, non più che cortese e che bastava a dimostrargli quanto poco ella ci tenesse ai suoi conforti.

      Sanneo chiamò Alfonso per ringraziarlo e per chiedergli se durante la sua assenza nulla di nuovo fosse avvenuto.

      Ritornando al suo posto, s’imbatté per la prima volta nel signor Maller. Avrebbe potuto evitarlo perché Maller che ritornava appena allora dal funerale lo aveva preceduto e si dirigeva alla sua stanza, ma credette di esserne stato visto e non volle lasciar credere di temere quest’incontro. Accelerò il passo, sorpassò Maller e lo salutò inchinandosi; non ne fu sicuro, ma gli parve che Maller chinasse anche lui il capo. Prima d’infilare il piccolo corridoio a sinistra, si volse e vide che Maller stava voltandogli la schiena per entrare nella stanza. Il principale aveva il volto intensamente rosso e Alfonso rimase in dubbio se quel rossore era prodotto dall’agitazione per essersi imbattuto in lui o se era il solito colore alla cui vista egli non era più abituato.

      Da quest’incontro rimase agitato tutto il giorno e dall’agitazione risultò un aumento del suo lavoro. La sua attività stava sempre in rapporto diretto alle inquietudini che gli apportavano le sue relazioni con Maller.

      A mezzodì non osò uscire immediatamente dall’ufficio temendo di vedere di nuovo il signor Maller che a quell’ora andava alla borsa.

      Ballina lo trattenne con le sue chiacchiere. Alchieri aveva detto ad Alfonso che il buon umore di Ballina da qualche tempo era diminuito. L’ex-ufficiale non aveva compreso per bene quale mutamento fosse avvenuto nell’umore di Ballina, ma aveva sentito bene ch’era mutato. Ballina era ancora allegro e rideva molto, ma più volontieri alle spalle altrui e con un po’ di veleno. La sua posizione non era peggiorata e non era stato colpito da nessuna sventura, ma si diceva stanco di lottare con la miseria.

      — Quando penso quello che a dieci anni pensavo di divenire a trentacinque e quando considero quello che sono mi vengono i sudori freddi, — aveva detto ad Alfonso allorché questi gli aveva chiesto notizie della sua salute. Era la sua idea fissa.

      Da poco era entrato alla corrispondenza un nuovo impiegato, certo Bravicci, un giovinetto che non sapeva far nulla, ma ch’era stato raccomandato tanto bene che lo si era messo subito in paga e con una paga superiore a quella di Alfonso. Andava vestito trascuratamente e spesso sucidamente; lavorava di schiena a quel lavoro di copiatura a cui Sanneo lo aveva relegato. Dai colleghi non era amato e Ballina gli dedicava il suo odio speciale.

      — Possiede cento o duecentomila franchi e viene qui a togliere il pane di bocca a noi poveretti.

      Alfonso non voleva crederlo.

      — Infatti, — disse Ballina, — sarebbe difficile crederlo e, se non si sapesse che tanto più denari si posseggono tanto più imbecilli si diventa, sarebbe impossibile.

      Poi dimenticando Bravicci, in uno slancio di vecchio buon umore senza fiele, asserì che anch’egli faceva più sciocchezze ai primi del mese, appena ricevuta la paga, che alla fine; intanto agli ultimi del mese non spendeva che quello ch’era necessario e non più.

      Il lavoro alla banca ora bastava ad Alfonso perché fatto in misura enorme e con attenzione intensa, sempre nuovamente stimolata da un incontro con Maller o da un saluto brusco di Cellani. La sera usciva dalla banca esausto, tranquillo, soddisfatto del lavoro compiuto, e anche fuori d’ufficio con la mente vi ricorreva volontieri. Meravigliato egli stesso, si chiedeva talvolta se sulle proprie qualità non si fosse ingannato e se quella vita non fosse precisamente la più adatta al suo organismo. La sua antica abitudine di sognare rimaneva la medesima, da megalomane, ma evocava fantasmi ben differenti. Quando allora sognava si attribuiva tratti di diligenza straordinaria i quali necessariamente dovevano venir lodati da Sanneo e dalla direzione. Dovevano essere tratti di diligenza che salvavano la banca dalla rovina.

      In

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