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la faccia per farla vedere sorridente e smentire Gustavo, ma il sorriso non le riuscì; scoppiò in pianto, si nascose il volto nella pezzuola e, non bastandole, per sottrarsi agli sguardi di tutti uscì lentamente, singhiozzando con violenza. Inutilmente il vecchio Lanucci le gridò dietro di non muoversi dal tavolo mentre si cenava perché era un disordine ch’egli non voleva tollerare. Il disordine gli dispiaceva specialmente perché egli non poteva moversi; per un’esagerazione della cura prescrittagli dal medico, onde guarire più presto, quando era alzato, si faceva fasciare le gambe in coperte pesanti.

      — È sempre per quella storia di Gralli, — disse la Lanucci con la voce soffocata da lagrime rattenute. — Capirà che una ragazza non può mica sopportare a sangue freddo di esser lasciata a quel modo, senza ragione, perché è certo ch’ella, poveretta, non gliene diede alcuna. Gli voleva bene.

      — Avevo offerto di andare a rompere la testa a quell’omiciattolo ma essi me lo proibirono, — gridò Gustavo. Voleva dimostrare che non rimaneva passivo dinanzi alla disgrazia della sorella.

      — No! — disse la signora Lanucci, — atti estremi no! Può ancora pentirsi di averla abbandonata, e finché non vi sono state delle brutalità tutto ancora può regolarsi.

      Ad Alfonso spiegò, che, quantunque a lei da principio Gralli non fosse piaciuto, doveva ora dividere le speranze di Lucia perché dalla sua tristezza comprendeva che n’era innamorata.

      In seguito a proposta del vecchio non ne parlarono più, ma non parlarono neppure d’altro.

      Il Lanucci fu il primo a ritirarsi, e mentre camminava, lentamente, appoggiato al braccio della moglie, si lagnava di varî dolori, ma la sua compagna non li sentiva e impaziente lo costringeva a andare innanzi quando si capiva ch’egli avrebbe voluto fermarsi a prender fiato.

      Affaticato prima dal viaggio e poi dal lavoro e dalle agitazioni della giornata, fu una vera felicità per Alfonso potersi stendere nel suo letto. Spense in fretta il lume e si gettò su un fianco respirando profondamente dalla soddisfazione. Sembrava un uomo stanco di godere.

      Dopo aver chiesto pulitamente il permesso, entrò Gustavo.

      — Già spento il lume? Sei molto stanco?

      — Sì! molto!

      Lentamente e con sforzo gli disse ch’era stato ammalato e che la malattia lo aveva lasciato molto debole. Credette che Gustavo si fosse allontanato e fu là là per addormentarsi. Invece, molto vicino a lui, Gustavo parlò lungamente senza chiedere sue risposte. Egli comprese quello che gli veniva detto, ma nella sua stanchezza i fatti che gli venivano esposti non lo sorprendevano. Non si agitava neppure pensando alla sua relazione con Annetta che le parole di Gustavo gli richiamavano alla mente.

      — Oh! poche parole! — disse Gustavo a bassa voce. Dichiarò che a lui non piaceva affatto quel grande dolore di Lucia per un uomo che non lo meritava. — Qui gatta ci cova! — disse abbassando ancora minacciosamente la voce. — Non è naturale che per l’abbandono di un aborto simile Lucia si rammarichi. — Dichiarò che a lui parlava come ad un fratello. Supponeva che Lucia per troppa fiducia si fosse data a Mario Gralli. — Ma io l’ammazzo, e se anche mi costasse la galera. — Si ripeté a voce più alta: — Io l’ammazzo se abusò in tale modo della nostra fiducia.

      Alfonso aveva compreso, ma l’unico suo desiderio fu che Gustavo al più presto si allontanasse. Ragionava però ancora e si sentì in dovere di protestare a nome di Lucia.

      — Lucia è una ragazza dabbene e tu hai torto, — disse senza sollevare la testa dal guanciale.

      — Dabbene? — gridò Gustavo — ma è una ragazza e debole quindi.

      Dal tinello si udì un grido e poi il rumore di un pianto affannoso. Alfonso sentì la voce della signora Lanucci dapprima bassa: si capiva che voleva tranquillare Lucia, poi più alta: chiamava Gustavo. Costui uscì e chiuse dietro di sé la porta. Poi Alfonso li udì discutere accanitamente, una voce cercava di soffocare l’altra mentre li accompagnavano i singhiozzi di Lucia deboli e continui. Questi tutto ad un tratto cessarono e Lucia parlò con voce limpida, scandendo le sillabe, battendo su singole parole: Giurava o prometteva. Tutto ciò non giunse a scuotere Alfonso dal suo torpore; si sentiva tanto debole e tanto indifferente che credette il tutto non fosse altro che suggestione della febbre che di nuovo lo avesse afferrato. Gli parve che un’altra volta ancora si aprisse la porta della sua stanza o che Gustavo lo chiamasse ma a bassa voce, evidentemente soltanto per accertarsi ch’egli dormiva.

      Non rispose, incapace di scotersi.

      Alfonso si alzò rinfrescato dal sonno. Sapeva ora molto bene che la sera innanzi aveva assistito a una scena reale, ma non ne aveva afferrato i particolari in modo da poter comprendere quale importanza dovesse dare ai dubbi che Gustavo aveva avuto tanta fretta di comunicargli. Certo il suono della voce di Lucia non era stato quello di una colpevole e ad Alfonso bastò per credere nella perfetta sua innocenza. Non appena desto, era stato riafferrato dalle sue preoccupazioni e non poteva rivolgere tutta la sua intelligenza a studiare dei fatti che direttamente non lo riguardavano.

      In tinello non trovò che Gustavo il quale a sorsellini beveva il suo caffè.

      — Scusa sai se ieri a sera non stetti ad ascoltarti, — gli disse con franchezza, — ero tanto stanco che mi addormentai mentre tu mi parlavi e neppure prima d’addormentarmi non arrivai a comprendere nulla. Che cosa volevi dirmi?

      Gustavo alzò gli occhi dalla scodella e gli gettò una occhiata diffidente.

      — Tanto meglio, — gli disse, — io ero un po’ brillo e chissà quello che ti dissi.

      Non era vero che fosse stato ubbriaco, ma Alfonso non pensò di cercare la ragione per cui gli veniva detta una menzogna. Forse, era l’interpretazione più benigna, Gustavo mentiva per iscusarsi di aver detto e pensato cose non vere.

      R

      Alla banca, passando il corridoio per recarsi alla sua stanza, Alfonso provò la stessa acuta sensazione di malessere del giorno innanzi. Non incontrò nessuno che gli dispiacesse, ma fu lieto quando si trovò nella sua stanzuccia. Si stava molto male là dove si poteva trovarsi d’improvviso a faccia a faccia con Maller.

      Alchieri lo salutò col suo modo brusco e sempre scherzoso. Gli raccontò che aveva letto il copialettere e che s’era meravigliato del grande numero di sue lettere che ci aveva trovate.

      — Bada di non lavorare troppo perché danneggeresti gli altri!

      Quest’osservazione soddisfece Alfonso. Se Alchieri s’era accorto della quantità enorme di lavoro da lui fatto, tanto più facilmente se ne sarebbe avvisto Maller che ad ogni lettera doveva apporre la firma.

      Verso le dieci, Alchieri si preparò per andare ai funerali di Jassy. Si doleva dei cinque franchi che gli avevano fatto sborsare:

      — Almeno voglio assistere ai funerali e stare per un’ora lontano dall’ufficio.

      Ci andò come ad una festa.

      Invece ad Alfonso sarebbe dispiaciuto di dover andarci perché certamente v’interveniva anche il signor Maller. Venne levato d’imbarazzo da Sanneo il quale gli disse che lo pregava di rimanere lui alla banca, visto che tutti gli altri della corrispondenza, per aver avuto più intima relazione con Jassy, desideravano di rendergli l’ultimo omaggio. Era necessario che qualcuno rimanesse alla corrispondenza perché, quantunque fosse probabile che il signor Maller andasse anche lui al funerale, espressamente non lo aveva detto e poteva, rimanendo alla banca, aver bisogno di qualche lettera o informazione. Alfonso trasalì in modo che Sanneo se ne accorse.

      — Oh! non le chiederà gran cosa! — gli disse per tranquillarlo; — alla peggio ella avrà un poco da correre per la banca a cercare qualche documento.

      Rimanendo alla banca correva dunque i medesimi pericoli che andando ai funerali.

      Sarebbe stato pur bello che lo si fosse sempre lasciato tanto tranquillo. Mentre

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