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ardo di raccontare al duca, a tutti, le prodezze di questo ladro, che dopo aver tentato, costringendovi a un matrimonio infame, profittando della vostra inesperienza, impadronirsi d’una parte delle ricchezze del duca, ora vi minacciava di morte. Il villano non è agitato dal delirio di posseder voi; come tutti i pari suoi, cupidi, avari, insidiatori dell’altrui, egli mira al vostro scrigno.... Diciamo tutto al duca: e a voi, signorina, – esclamò il nobile rifinito, – offro io il mio nome per riparare un passato, in cui non avete nessuna colpa....

      Roberto rivolgeva per la mente i pensieri più truci. Gli era sembrato a un tratto che lottava col conte di Squirace e che le sue mani erano lorde di sangue.

      Enrica vedea ben avviati i suoi disegni: voleva spingere quella scena più oltre, inasprire il conflitto; e con arte infernale, soggiunse:

      – No, signor conte, voi non direte nulla a mio padre… ve ne supplico… morirei di dolore e di vergogna....

      – No: il duca, almeno, deve saper tutto: e insieme concerteremo il modo di schiacciare questo… rettile velenoso!

      E, senza sapere ciò che faceva, il conte alzò il suo scudiscio su Roberto.

      Il vaso, già pieno sino all’orlo, traboccava.

      – Signor conte, – disse con voce rauca Roberto, – trovate modo di darmi una soddisfazione pronta, immediata anzi: domandatemi scusa del vostro affronto: umiliatevi dinanzi a me e a Enrica: placatemi, – seguitò con spaventosa freddezza, – io ho già la febbre d’avervi tra le mie mani.... Ho sete del vostro sangue....

      – Sì, – interruppe pronta Enrica, – egli può parer vile d’aver sopportato da voi sin ora tanta insolenza! Roberto non può esser vile: nè forse potete, voi, gentiluomo di nascita, domandargli scusa.

      – E che scusa, – rispose il conte, – che soddisfazione volete io conceda al figlio di Ciccillo, il quale ingannava mio padre, vendendogli, come buona, pessima biada per i nostri cavalli? Il duca penserà a esercitar giustizia su questo villano.... Con la sua influenza può farlo intisichire nel fondo di un carcere: può farlo ammazzare, come si ammazza una bestia nociva: e accomodar tutto senza che nessuno si disturbi.... È gente si vile che la loro carne val meno di quella d’un quadrupede.... Va’, canaglia, va’....

      E alzò di nuovo il suo frustino.

      Roberto si contorceva, si divincolava.

      Allorchè il conte ebbe finito, fece un gesto per trascinar con sè Enrica. Ella dette a Roberto uno sguardo indescrivibile, uno sguardo esprimente voluttà, ferocia, provocazione: uno sguardo che diceva: – ti lasci annientare così, mi ti lasci rapire!

      Poi essa si staccò dal conte, corse, con atto finto, a gettarsi al collo di Roberto: si strinse a lui sì forte che sentisse tutto il rigoglio di quelle forme, che egli, nella sua sensualità, adorava; gli si accostò alle labbra, spirandogli un alito di fuoco.

      La trista sirena lo inebriava al delitto.

      Enrica trovò modo di volgere un altro sguardo al conte di Squirace. Egli, già imbaldanzito, non avea bisogno di quell’eccitamento.

      Si fece innanzi per togliere Enrica dalle braccia di Roberto: e di nuovo con male parole.

      – Ah! – esclamò Roberto, che era fuori del senno e a cui Enrica avea abilmente eccitato i sensi e la mente. – Tu aggiungi ingiuria ad ingiuria: tu vuoi correre a far uno scandalo: tu vuoi rapirmi questa donna, che è mia… mia: ch’io ho posseduta e possederò: te lo dico col massimo orgoglio: tu non vuoi rispettare il mio uniforme, il mio grado: tu insisti nel chiamarmi villano: e bene abbiti il villano.... Io torno figlio di Ciccillo; poichè tu hai insultato anche mio padre, torno bifolco.... Eccomi a te....

      E, gettato da sè l’uniforme, si slanciò sul conte. Egli si difendeva e, irritato, percosse con lo scudiscio Roberto nella faccia.

      L’onta, il furore inferocirono il giovane sì gagliardo.

      Il conte l’avea ferito in un occhio.

      Si rotolarono per terra: Roberto, forte come un leone, premeva sempre sotto di sè il conte, che pur faceva sforzi grandissimi per liberarsi. Si rialzarono, si riazzuffarono: Roberto era ubriaco di rabbia: tutti e due inveleniti dall’odio; a poco a poco si accostarono al ponte: a un urto di Roberto il conte di Squirace cadeva nell’immenso precipizio, gettando un grido straziante: all’assassino! che risuonò in tutto il parco.

      Enrica era scomparsa.

      Ella avea attirato il conte in quell’insidia: si era servita di lui per eccitare Roberto: la vita di due uomini le sembrava ben poco per sbarazzarsi di un solo fra essi, per assicurare la libertà de’ suoi piaceri, il fasto, la pompa del suo avvenire.

      Al grido del conte di Squirace, librato nello spazio, succedette un altro grido, proferito da Enrica, che ebbe pur la forza di urlare contro il suo antico amante, contro l’uomo cui era unita da un vincolo segreto: all’assassino, all’assassino!

      Roberto era rimasto stordito per l’accaduto: egli avrebbe voluto gravemente offendere, castigare il conte: non pensava ad ucciderlo, almeno a quel modo: avrebbe voluto indurlo a un duello leale e lì, poichè era sicuro della vittoria, sbramarsi del suo sangue, di cui, come gli era uscito dal labbro, avea sete.

      La gente incominciò ad accorrere da ogni banda. Un delitto, un delitto nel parco! – ripetevano tutti inorriditi.

      Fu trovato presso il ponte Roberto, che rimetteva indosso il suo uniforme: fu trovato in terra il cappello del conte di Squirace; un cappello verdastro, facilmente riconoscibile, e che avea, nel di dentro, le cifre del frivolo e sfortunato gentiluomo.

      Il duca era a capo della sua gente: e, accanto a lui, Emilio, la guardia del parco.

      Al vedere l’uniforme, che Roberto avea indosso, il duca ed Emilie scambiarono uno sguardo.

      – Che fate voi qui, Roberto? – disse il duca, severamente.

      Roberto si confuse.

      Avea il volto graffiato, le mani lacere in varii punti, i pantaloni tutti cosparsi di polvere, la cravatta stracciata.

      – Roberto! – esclamavano molti e molte, – lui l’assassino!

      – Voi siete entrato qui nel parco anche stanotte… per compiervi qualche azione trista… poichè, alle intimazioni di Emilio, siete fuggito come un ladro e avete lasciato questo bottone, che manca al vostro uniforme.... Perchè stanotte siete entrato nel mio parco?

      Roberto taceva. Così i sospetti, anzi le ragioni di accusa si accumulavano su lui: così si chiudea da sè in una rete, dalla quale non avrebbe potuto uscire,

      – Dov’è il conte di Squirace? – domandò il duca, guardando con orrore il vicino precipizio, il mare gorgogliante nell’imo di esso e gettando poi gli occhi sul cappello, che teneva in mano.

      Anche a questa domanda Roberto non fiatò.

      La gente gli si stringeva attorno, un po’ minacciosa, un po’ incredula ch’egli fosse stato capace di commettere tale delitto.

      – Vi ripeto: perchè vi trovato qui, perchè anch’oggi siete entrato nel parco di nascosto?

      Roberto ebbe un’idea: invocare la testimonianza di Enrica, sicuro che essa l’avrebbe salvato.

      Enrica si era fatta trovare presso al ponte, allorchè era giunto suo padre insieme con gli altri: come per chiarir tutti ch’ella era stata testimone dell’accaduto. Ora s’era posta accanto al duca e s’appoggiava al braccio di lui.

      – Signor duca, – disse Roberto, rompendo ogni esitanza, – c’è una persona che può esser testimone autorevole, raccontare ciò che qui avvenne, e perchè io sono entrato nel parco stanotte, e perchè mi ci trovo adesso....

      – E chi è questa persona?

      – Vostra figlia!

      – Enrica – esclamò il duca. – Tu hai veduto tutto, e puoi parlare?…

      – Non avrei voluto parlare: non so perchè s’invochi la mia testimonianza....

      – Enrica!…

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