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che ne avea avuto.

      Ma la sorte, come vedremo, disponeva altrimenti.

      – Sì, – continuava Cristina, parlando, stravolta come una furia, alla sua padrona, nella camera di lei, – bisogna tener celato a Roberto ch’egli è padre.... altrimenti sarebbe impossibile il dissuaderlo, l’allontanarlo....

      Ma, per le ragioni che sa il lettore, ciò non quietava le angoscie di Enrica.

      – Sei ben certa, – domandò languidamente, – che la bambina sarà stata condotta con ogni cura e sarà trattata con vero amore?

      – Oh, per questo! – rispose ipocritamente Cristina, il cui pensiero volava sempre a’ futuri guadagni, alla potenza che avrebbe acquistato sull’animo della padrona, giovandosi di tal segreto, e non contava punto sul forte carattere di lei.

      Enrica piangeva, di quel pianto spasmodico, proprio de’ malvagi, degli altezzosi, stretti dalla disperazione....

      Il pianto la scoteva tutta: e, ad un tratto, come concludendo una serie di pensieri che la crucciavano, sospirò:

      – È impossibile.... impossibile.... confessar tutto a mio padre!

      E, alzandosi, divenuta ormai, per le smanie, i delirii, le sofferenze, quasi simile a uno spettro nella fisonomia, guardandosi tutta in un grande specchio, disse con uno de’ suoi ghigni feroci:

      – E, poi, per un istante di oblio… per la violenza di un mascalzone… io non voglio rinunziare al mio bell’avvenire.... Se la vita di costui è d’ostacolo alla mia, può essere annientata....

      E si gettò fra le braccia di Cristina, ben degna di comprendere un tale pensiero.

      Udirono un rumore alla finestra: un colpo secco, come se vi fosse stata lanciata una pietruzza.

      La pietruzza, infatti, era ricaduta sulla terrazza nella quale si trovava il duca.

      Il lume si era spento nel salotto e il duca che, sin allora, era rimasto meditabondo, si scosse, fece alcuni passi: e subito udì un fruscìo di foglie.

      – Chi va là?… – gridò il duca.

      Qualcuno correva nel parco.

      I cani latravano.

      E di lì a poco si udì uno sparo.

      Il duca continuava a gridare;

      – Chi va là?… Chi va là?…

      Comparve sotto la terrazza una guardia con la lanterna.

      – Eccellenza, – disse costui, – un uomo è entrato nel parco… l’ho inseguito… gli ho fatto fuoco contro… ma egli, per gli alberi, si è arrampicato, non so come, in vetta al muro in fondo al parco, e si è gettato di là com’uno scoiattolo.... Dev’essere certo un uomo del paese… La porticina è chiusa a chiave… non ho potuto inseguirlo. Ho raccolto a piè del muro, donde s’è gettato, un bottone nuovo che luccicava: un bottone di uniforme di marina.... E l’ha perduto, senza dubbio, l’uomo che fuggiva… poichè vi è un segno di sangue tuttora fresco.... Nel fuggire, egli si è forse squarciato le mani, a un vetro, a un arbusto.

      – Vegliate, Emilio, – disse il duca, – non parlate con nessuno dell’accaduto, e domattina di buon’ora visiteremo insieme il parco: sapremo chi è il malandrino entrato qui, e con quale scopo....

      Il duca richiuse, molto pensoso, la finestra.

      Il colpo di fucile, sparato dalla guardia in fondo al parco, non aveva svegliato nessuno degli invitati. I servitori forse l’avevano udito, ma senza farvi caso. Emilio sparava a volte il suo schioppo, di notte, per semplice precauzione, perchè si capisse da’ malvagi che egli vigilava.

      Le due donne, Enrica e Cristina, dopo la pietruzza gettata sulla finestra, avevano udito tutto: le parole della guardia e quelle del duca.

      – È lui, – aveva detto Enrica a Cristina, tremando, mentre se ne stavano con l’orecchio teso, accostate alle imposte della finestra.

      – Quale ardire… tentare di venir qui… a questa ora… e a che scopo.... E a costo di essere ucciso come un ladro....

      – È un gran male che il fucile di Emilio non lo abbia colto, – mormorò Enrica a denti stretti, sconvolta, – sarei stata libera....

      Ci fu un breve silenzio: come se Cristina, la quale non peccava per eccesso di tenerezza, avesse avuto orrore di quella proposta.

      – Se è stato trovato il bottone di uniforme… domani vi saranno ricerche.... Si scoprirà subito che è lui.... Che angoscia! Si crede egli, dunque, proprio molto desiderato?… Dovrò annunziare a mio padre, – continuava fra sè, – che sono la sposa del figliuolo di uno de’ suoi contadini… del figliuolo di Berto Jannacone?… Ah!… mai!

      Ed Enrica spasimava, si contorceva: era sopraffatta da una forte, acutissima convulsione.

      III

      Il marchese Piero non aveva voluto trattenersi dal duca: e, allegando che gli urgeva tornar a casa a rivedere la moglie, e saper notizie sul grave stato di lei, si accomiatava dal cugino.

      – Sono sicuro che avrete.... se già a quest’ora non l’avete.... un bel figliuolo maschio! – gli disse il duca.

      Il marchese partì fra i lietissimi augurii di tutti gli invitati.

      La sera era già molto innanzi, e il gentiluomo in una carrozzella, che guidava da sè, o, a meglio dire, il cui cavallo si guidava da sè, lasciavasi andare alla foga de’ suoi pensieri.

      Rifletteva al grande avvenimento, che dovea compiersi per lui in quella notte, se non s’era compiuto: lo turbavano la certezza del disonore, della rovina, s’egli non fosse già padre, o non lo doventasse fra poche ore.

      Allo svolto di una strada, sentì chiamarsi nel buio.

      Trepidò.

      Poi riconobbe la voce di un uomo molto destro, molto temuto in que’ luoghi: Marco Alboni, sul quale correvano tristi leggende; venuto dalla Marca, non si sapeva perchè, come non si sapeva di che vivesse, che arte esercitasse.

      Era arrischiatissimo, soverchiatore; avea nervi d’acciaio.

      Lo conoscevano tutti per un fido del marchese; mezzano delle dissipazioni di lui: adoprato dal gentiluomo in bassi servigi, di cui era sempre riuscito a ottenere la più larga rimunerazione.

      Il marchese l’odiava e lo ricercava: lo fuggiva e gli era necessario: non l’avrebbe voluto vedere, ma gli era forza comportarlo: poichè tale è la lega che si forma di solito fra i tristi.

      Marco, uscendo di dietro a un cespuglio, fermò il cavallo del marchese.

      – Che c’è di nuovo? – domandò il gentiluomo che s’aspettava qualche importuna richiesta, e non era il momento in cui potesse soddisfarla. Poi gli balenò un’altra idea e domandò:

      – Mia moglie?…

      – Signor marchese, ho da dare a V. S. serie notizie, – disse con sicumèra Marco, – ci fermeremo qui in un casolare diroccato, che appartiene al duca, ed è a pochi passi, e parleremo a nostro agio.

      Il marchese scese dalla carrozzella; Marco prese la briglia, e legava qualche minuto appresso il cavallo ad un albero.

      Entrarono poi fra le rovine.

      Nè l’uno nè l’altro si accorsero di un uomo, che vi stava appiattato, e che s’era tutto rannicchiato in sè, curvato, per sfuggire a ogni sguardo,

      – La principessa ha partorito, – disse Marco, – ed è morta qualche minuto appresso.

      – Ah! – esclamò il marchese, sinceramente addolorato.

      Ma l’ansia de’ suoi interessi vinceva il dolore.

      – E la creatura?… – domandò.

      – Una bambina.... morta anch’essa.

      – Marco! – dimmi il vero, – esclamò il marchese – e se questo è il vero, io sono risoluto a bruciarmi le cervelli fra queste rovine.... Un gentiluomo

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