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poichè passeggiava allora per la campagna in guarnellino corto: le braccia erano rotonde, bianche, marmoree.

      Un bellissimo giovinetto, biondo, robusto, di aspetto gentile, figlio di un contadino del duca, veniva spesso al castello per servigi, o a recar doni.

      Era alto della persona, di larghe spalle, occhi vivi, naso aquilino, e mirabile nella proporzione delle sue forme. Aveva poi una certa grazia innata: spirava la tranquillità, la gioia, la forza.

      Il collo nudo, il petto nudo, le gambe quasi nude, era bello a vedersi come una statua: come un Apollo o un Antinoo.

      Cristina, non sappiamo con quale pretesto, lo aveva tratto nelle stanze della padrona, mentre essa un giorno correva i campi, e s’era trattenuta con lui.

      Più tardi Roberto Jannacone riusciva a confabulare con Enrica. Essa incominciò a vederlo volentieri, a scherzarci, a incrudelire verso di lui: il suo modo di dimostrare affetto agli esseri che prediligeva.

      Talvolta, selvaggia com’era, gli dava uno schiaffo sonoro; con una frustata gli aveva fatto un grosso sberleffo sul viso: un giorno gli aveva fatto di toccare un ferro, che ella aveva tenuto al fuoco lungo tempo, e Roberto ne fu per varii giorni ammalato.

      Egli sopportava; aveva un suo disegno: quella ragazza appariscente gli metteva addosso ben altro fuoco che i ferri arroventati.

      Cristina non vedeva di mal occhio che la padrona si dilettasse della compagnia di Jannacone, per farlo disperare, tormentarlo in ogni modo.

      Ella aveva così più il destro di veder il bel giovane, che, sottile politico, sebben altri avesse potuto averlo in concetto di rozzo, la secondava nel suo talento, e lasciava soddisfatta quella donna provetta, sapiente in certe arti.

      Cristina sapeva che Enrica, orgogliosa, fastosa, disprezzava il giovane.

      Enrica aveva preso con esso una insolita familiarità. Aveva inventato per lui una nuova maniera di torture.

      Si faceva or vedere da Roberto negli atteggiamenti più provocanti; se gli mostrava discinta, le sue forme robuste in parte scoperte; bene inteso, sempre quando v’erano persone vicino, che potessero accorrere in suo aiuto; gli mostrava di trattarlo come un bruto, come un uomo senza considerazione.

      L’altro s’invasava di tutta quella bellezza; accanto a Enrica si sentiva in un’atmosfera di grandi ardori.

      Pensava, nella sua astuzia di contadino, che un giorno la sua forza avrebbe vittoria: e sarebbe si grato un trionfo, dopo tanti oltraggi, tante ripulse, tante ignominie.

      Il giorno venne.

      Enrica correva sola, una domenica, poco innanzi il crepuscolo, fra le alte erbe.... Non s’era accorta che qualcuno la seguiva da un pezzo. Due braccia di ferro l’avvinghiarono. Vi fu una lotta disperata. Enrica si difendeva con morsi, coi pugni, con le unghie, con uno stile, che aveva fra i capelli, infliggendo ferite nel braccio di Jannacone, che spargeva sangue. Ma costui sapeva quel che voleva, e lo voleva. Teneva una mano sulle labbra di Enrica e quasi la soffocava perchè non gridasse: fiero, risoluto, cercava di vincere ogni ostacolo.

      Uscivano a sera di là.

      Nel separarsi, Enrica, si gettava al collo del giovane, e gli dava due baci sulla fronte.

      Quella passione ruggì per oltre un mese.

      Enrica era delirante,

      I suoi sensi eccitati, la triste educazione, la malvagità precoce non davan luogo alla riflessione.

      Un bel giorno con Roberto Jannacone si recarono dal parroco, un vecchissimo prete, stretto da’ bisogni, sempre perplesso su ciò che dovea fare, timido, anzi pauroso, infermo, e gli dichiararono voler essere marito e moglie. Enrica presentava, come dono alla chiesa, molti ducati d’oro.

      Il parroco, secondo l’uso de’ tempi, previe certe formalità, univa in matrimonio segreto la duchessa Enrica e il figlio del contadino Ciccillo Jannacone.

      Roberto fece subito a Enrica una promessa: rendersi degno di lei, prima che il loro matrimonio fosse palese; prima che essa ne parlasse al duca.

      A Enrica tutto allora sembrava facile, anche il parlare a suo padre, appena fosse tornato.

      Già apparivano le conseguenze della funesta passione, ch’ella non palesava ad alcuno, ma l’atterrivano.

      Roberto si arruolava nella marina e partiva, tre settimane dopo il loro segreto matrimonio, per lunghi viaggi.

      Cristina nulla seppe di questo matrimonio; combinato con ogni cautela, fra un prete debole e due giovani esaltati, e il cui atto rimase iscritto solennemente nell’archivio della parrocchia.

      Enrica, per un pezzo, ricordò, con profonda commozione, la semplice scena di questo matrimonio: la chiesetta disadorna, il prete, tutto conturbato e pur compiacente, che mormorava con un peculiare accento le parole del rito; essa che stringeva convulsa la mano di Roberto.

      E Roberto le metteva in dito un anello che ella stessa gli aveva dato.

      Pochi giorni dopo la partenza del giovane, Enrica era tornata alla sua fierezza, al suo più schietto egoismo.

      Provava un immenso, invincibil disgusto di ciò che avea fatto: inorridiva del legame, onde s’era unita a un uomo sì basso: arrivava persino, nell’orrore che le ispirava quanto era accaduto, ad augurarsi che a Roberto incontrasse qualche mala ventura: non tornasse più.

      Nel giovane, invece, l’assenza raddoppiava, ingagliardiva l’amore.

      Egli si faceva istruire da’ suoi superiori: cercava prender in esempio i migliori: ne imitava i modi: affinava il suo parlare: imparava, in pochi mesi, a leggere e scrivere: il comandante della nave lo faceva suo segretario, lo prediligeva molto.

      Nelle lunghe giornate di bonaccia, nelle notti tranquille, o fra lo scatenarsi delle tempeste, egli pensava sempre ad Enrica: a lei soleva riportare ogni sua azione: s’ispirava all’affezione per lei: sapea ripetersi quasi ogni parola che essa gli avea detto nella lunga loro dimestichezza: la rivedeva in tutti i suoi atteggiamenti capricciosi, in tutta la sua florida bellezza: l’amava, l’adorava, la vezzeggiava: la fantasia, come accade, gliela metteva innanzi più perfetta ch’ella non fosse.

      Non potendo parlare ad altri, sempre pensava, sognava di Enrica. Aguzzava, affuocava ogni giorno la sua passione. Se un dubbio lo pungeva che altri potesse torgli la donna ch’egli amava, insidiargli il possesso di lei, quell’uomo robusto, indomito, di sbrigliate passioni, si sentiva rimescolare il sangue, gli pareva che una nube rossastra gli oscillasse dinanzi agli occhi, il cuore gli dava che sarebbe stato capace di tutto, anche di un delitto e di più che un delitto.

      Ma quanta era la veemenza dell’amore da un lato, tanta era dall’altro la forza del disgusto.

      Enrica ormai odiava Roberto: aveva paura del giorno in cui egli sarebbe tornato a rammemorarle la sua promessa: e cercava persuadersi che un tal giorno non sarebbe venuto mai.

      Aveva dovuto confidarsi con Cristina dell’amore pel giovane, delle conseguenze della passione.

      Cristina s’era detta in modo preciso:

      – Un segreto come questo mi gioverà, mi arricchirà di sicuro!

      Ella si preparava a sfruttar Enrica in tutte le condizioni della sua vita.

      La sapeva generosa, prodiga del denaro pe’ suoi fini: in piaceri, se non in opere buone: stava sicura di poterla liberare dal figliuolo del contadino, ch’ella stessa ormai, con singolare ingratitudine (o donne!), non avrebbe più voluto vedere: la immaginava sposa di un gran signore, riputata, stimata, invidiata da tutti: ma ella sempre sarebbe comparsa a turbar le sue gioie, a esigere da lei nuovi sagrifici, a spogliarla di ciò che avesse di più caro, de’ suoi diamanti, de’ ricordi della sua famiglia, sinchè la sua sordida cupidità non fosse paga.

      Dopo, l’avrebbe torturata, ma soltanto per suo diletto.

      Enrica, in certi momenti, era stata con lei assai altera e cattiva: e quell’animo triste dovea pensare a vendicarsene raffinatamente.

      Per ora, si faceva umile; si era impadronita del grande segreto: la sventurata maternità di Enrica; avea accettato a ricettar la bambina, che dovea servire

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