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      VIII

      Al veder la faccia patriarcale e il sorriso giovialone dello zio, il giovanotto si sentí meglio, e cercò di sorridere anche lui. Lo zio aveva un monte di scartafacci sul tavolino, e gli occhiali sul naso.

      «Stavi per andare a caccia?» domandò amichevolmente. «Sí, caro zio» balbettò il giovane con tenerezza.

      «Scusami, ma ho a farti un discorso serio.»

      Alberto sentí che si faceva piccino di nuovo. Gli occhiali dello zio gli abbacinavano la vista.

      «Ma mi sbrigherò in un fiat» riprese il signor Bartolomeo. «Ho messo tutto in ordine da un mese. Non avrai che a gettare gli occhi sui conti, e spero che sarai contento di me.»

      Alberto respirò liberamente, e rispose ch’era contentissimo.

      «Vedrai che ordine! che esattezza scrupolosa! Se avessi amministrato sempre io a quest’ora saresti… Basta! dei morti non si parla. Cotesti son atti di gabella… le spese… i bilanci… il rendiconto della tutela… Stammi a sentire.»

      «Ma zio mio!… le pare!…»

      «No, no, figliuolo mio… Sono affari delicati questi… Ci son di mezzo io… Si tratta di tutela…!»

      Alberto, che non capiva nulla di nulla, e che aveva in corpo per giunta il rimorso di quella tal magagnetta della notte scorsa, perdette intieramente la testa soltanto a gettare gli occhi su quelle lunghe filze di cifre, e si lasciò trascinare pei capelli in un labirinto di dare ed avere, riscossioni, pagamenti, bonificazioni, atti giudiziari, spese diverse, ecc., approvando del capo, o sfogandosi in proteste di fiducia e di gratitudine. Dopo un par d’ore di quel supplizio venne a sapere che lo zio Bartolomeo, sulle trentaduemila lire d’entrata, avea fatto, durante la sua tutela, una economia di lire 5876 e 97 centesimi – oltre le tutte spese e la pensione pagata regolarmente al collegio Cicognini – delle quali, 5876 lire e 97 centesimi avea mandato al nipote 2000 lire, quando era ancora a Prato, e senza parlare di un rigo di ricevuta, e le rimanenti lire 3876,97 le consegnava al momento. Ben inteso senza voler sentire nemmeno discorrere d’indennità – diamine! non era del medesimo sangue per nulla! Alberto gli rammentava al vivo la sua povera Cecilia! Anzi non volle neppur restituiti i tre centesimi d’avanzo.

      Il nipote, malgrado la sua inesperienza, sentiva vagamente che i ringraziamenti gli venivano stentati, e che si ricordava della tosse significativa della notte scorsa.

      «Adesso, per la vita e per la morte, è bene mettersi in regola per via di notaio con una buona quietanza.»

      Alberto non fiatò, e sottoscrisse tutto quello che lo zio e il signor Zucchi gli misero sotto la mano.

      IX

      Gemmati era andato a Pistoia per un par di giorni. Alberto l’aveva accompagnato per un tratto di strada; poi era ritornato a piedi, per le scorciatoie che s’arrampicavano su per l’erta fiancheggiate da siepi fiorite. La viottola sbucava sulla strada carrozzabile, a pochi passi, in mezzo ai folti che continuavano a salire col monticello. Le due ragazze stavano per mettervi il piede quand’egli arrivò dall’altra parte della strada maestra; si voltarono al rumore dei suoi passi, e misero un oh! prolungato.

      «Vi ho fatto paura?»

      «Paura di che?» disse Velleda.

      «Sí, ci hai fatto paura» rispose ridendo l’Adele.

      «Volete che vi accompagni?»

      «Dove andremo?»

      «Ma.. dove vuoi» rispose Velleda all’interrogazione dell’amica.

      «Se tornassimo a casa?»

      La signorina Manfredini non fece alcuna osservazione; si voltò indietro, e incominciò a camminare verso il cancello, appoggiandosi all’ombrellino, con quell’altera indifferenza che l’avea fatta soprannominare la principessa.

      «Sai, non è stato nulla!» disse al cugino Adele, senza osar di guardarlo.

      Velleda li precedeva senza affettazione pel gran viale del giardino, voltandosi di tanto in tanto per fare una interrogazione, o fermandosi per raccogliere col medesimo interesse un fiore o un filo d’erba. I due cugini la seguivano l’uno accanto all’altra, chiacchierando fra di loro, ma senza

      darsi il braccio. L’Adelina era un po’ pallida, aveva certi rossori fuggitivi, certi impeti d’allegria, come una pienezza di vita che si fosse concentrata nel cuore. Andava lentamente, quasi fosse stanca, con certa mollezza carezzevole rispondeva a lui con voce piena di una dolce sonorità, e gli sorrideva senza alzare gli occhi, con un sorriso velato.

      Entrando nel salotto Velleda sprigionò i suoi magnifici capelli biondi, togliendosi il largo cappello di paglia, e vi rovesciò tutto quel mucchio d’erbe e di fiori che si teneva in grembo.

      «Cosa vuoi farne?» le domandò Adele.

      «Il piú bel mazzo, vedrai!»

      Appena rimasero soli il cugino prese la mano della giovinetta, e le disse: «Come sei bella!». Ella gli sorrise senza alzare gli occhi.

      Il sole faceva scintillare i vetri della finestra, e inondava di atomi dorati il viso della fanciulla. Ella lavorava in silenzio, col capo chino sul ricamo, e le sue mani, che si affaticavano con febbrile impazienza, dicevano al giovane amato tutte quelle cose che le labbra tacevano. – Essi si parlavano da mezz’ora senza aprir bocca – lui cogli sguardi che la giovinetta si sentiva posare sui capelli come un bacio – ella con quel silenzio, cogli improvvisi rossori che passavano sulla nuca delicata, e col lieve tremito delle mani.

      «Adele!» mormorò alfine Alberto con voce appena intelligibile. Ella trasalí. «Sei in collera con me?» Essa cercò due o tre volte il buco del canovaccio dove infilar l’ago, e balbettò:

      «Perché?»

      «Perché non mi dici nulla…»

      «Sto ad ascoltarti» rispose ingenuamente la fanciulla.

      «Mi ami?»

      Adele abbassò il capo sin quasi a toccare il lavoro che avea fra le mani, e il sangue le corse come una vampa in tutte le vene.

      «Dammi qualcosa di tuo!…»

      «Non ho nulla…»

      Il cugino prese la forbicetta: ella se ne avvide, impallidí leggermente, smesse di lavorare, ed attese, a capo chino, trepidante. Ei prese un ricciolino di quei che le svolazzavano sul collo, e lo recise.

      «Ahi!» esclamò la poveretta, di cui le mani tremavano forte.

      «Ti ho fatto male?»

      «…No… mi son punto un dito…»

      Trascorsero parecchi giorni di gioie tumultuose, nascoste in due mani che s’incontravano per caso, e di sospiri riboccanti di felicità, di rossori provocanti e di pudiche audacie, di mostruose dissimulazioni, che avrebbero aperto gli occhi anche ad un cieco, e di sotterfugi abilissimi, che nessuno faceva le viste d’indovinare, – cercandosi cogli occhi, parlandosi colle mani, accarezzandosi col suono della voce, respirando l’amore e l’amante coll’aria, col profumo dei fiori, col raggio del sole, e col canto degli uccelli. Velleda, quasi fosse sola a vederci chiaro, si faceva vedere il meno possibile. Gemmati era a Pistoia, lo zio Bartolomeo si fregava le mani guardando il bel tempo che favoriva l’ubertosa vendemmia. Era un paradiso. – Al giovane innamorato sembrava di vivere in un’estasi deliziosa, che non era priva di voluttà, voluttà sottile, quasi eterea, che gli ricercava squisitamente le fibre piú riposte, e gli centuplicava il piacere di certe sensazioni. Il suo cuore vi si abbandonava mollemente; ei non desiderava dippiú, non avrebbe osato cercare piú in là: tutte le larve gioconde che avevano popolato i suoi sogni giovanili, la donna, l’amore, la felicità, erano riunite in lei, nel suo sorriso, nella sua voce, nelle carezze di quella vesticciuola che s’increspava un po’ troppo sul petto e sugli omeri delicati. Allorquando lo strascico superbo di Velleda frusciava sul tappeto vicino a lui, o le sue chiome folte gli accarezzavano gli sguardi col loro bel biondo, egli guardava con piacere, come se quell’altra bellezza invece di essere una sottrazione alle attrattive di Adele, ne facesse parte,

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