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qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la sua bionda testolina. Si fermò all’improvviso, un po’ rossa, un po’ smarrita, svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidí leggermente.

      «Non ballo piú» gli disse «sono stanca.»

      La contessa Armandi era lí presso ed esclamò:

      «Che bella coppia!»

      Velleda rispose con un grazioso inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e poscia arrossí di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina, la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.

      «Non balli?» domandò il cugino, allorché furono soli.

      «Non mi hai invitato a ballare!» rispose Adele timidamente carezzevole.

      «Ci son tanti giovanotti…!»

      «Non voglio ballare cogli altri…»

      «Perché?»

      «Perché… perché… perché non voglio.»

      Ei chinò il capo, tuttora bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò sopra pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui vetri, guardando nel buio, allorquando udí un fruscío di vesti vicino a lui, e si trovò accanto la contessa Armandi.

      «Non balla il cotillon?…» gli domandò.

      «No, contessa.»

      Ella sembrò volere aggiungere qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinío di quella danza in mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto ricamato, gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita sinuosa ed elastica – poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un sorriso.

      «Voglio conoscerla meglio:» gli disse «facciamo un giro.»

      Tutti gli sguardi si volsero su quell’uomo fortunato e quell’altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno in cui l’aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di polvere e di veli.

      Entrarono nella stufa, profumata, silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito con certa bizzaria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando in tutti i zig-zag serpentini pei quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo, elegante come lei. Poi ella non disse piú una sola parola, appoggiò il mento sulla mano, e guardò qua e là con occhi distratti; il fisciú alitava lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d’alabastro: ella apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le stecche fra di loro. Tutt’a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e un sorriso singolari, e gli disse:

      «Ma noi ci compromettiamo orribilmente, mio caro!»

      Si alzò ridendo e si allontanò.

      Allorchè gli ospiti di villa Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava fra le gole lontane. Adele un po’ melanconica stava nel fondo della carrozza, avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto respirava a pieni polmoni.

      «Che bella sera!» esclamò. Velleda gli rivolse una rapida occhiata.

      I sogni di quella notte! popolati di tutte le larve dell’amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le lusinghe delle vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! Povera Adele, se avesse potuto indovinarli!

      XI

      Alberti si svegliò tardi, stanchissimo, e col capo peso. Un raggio di sole penetrava fra le stecche della persiana e faceva luccicare la vernice del cassettone; ei gli sorrise, poscia rimase a fissarlo con occhi sbarrati; infine si alzò con un inesplicabile malumore.

      Il suo primo sguardo fu per la finestra di Velleda: era chiusa. All’ora della colazione entrando nella sala da pranzo, volse intorno uno sguardo ansioso.

      «Sei malato anche tu?» gli chiese Adele correndogli incontro festosa.

      «Chi è malato?»

      «Velleda, che non viene a colazione perché è cosí stanca da starne male. Avete ballato molto!»

      Alberto lasciò cadere il sorriso ingenuo e l’aria giuliva della fanciulla. La colazione non fu molto gaia. Lo zio Bartolomeo uscí appena alzatosi da tavola, e li lasciò soli.

      La fanciulla guardava il cugino alla sfuggita, gli porgeva i fiammiferi e la borsa del tabacco, cercava di prevenire tutti i desideri di lui, e, dopo di avere esitato lungamente:

      «Che hai?» domandò.

      «Io? nulla.»

      «Non è vero; hai qualcosa.»

      Il giovane sentí penetrarsi sino al cuore quell’osservazione, e rimase un po’ senza rispondere.

      «Ma cosa vuoi che abbia?»

      «Mah… se lo sapessi!» rispose la fanciulla ingenuamente.

      Per la prima volta il giovane non poté sostenere il limpido sguardo della vergine, accese il sigaro ed usci.

      Trovandosi all’aperto, l’aria, il sole, il profumo dei campi, tutte quelle cose salubri e schiette, sembravano purificarlo e rinvigorirlo. Gli ebbri fantasmi della notte, che avevano bisogno del lume, della stearina e delle ombre delle cortine si dileguavano alla chiara luce del sole, e non rimaneva che la mesta e pura figurina di Adele, colle sue candide manine intrecciate sulle ginocchia, e i grand’occhi turchini che l’interrogavano timidamente.

      Il giorno dopo la contessina Manfredini comparve all’ora del desinare, fresca e rosea come prima. Alberto provò un singolare dispetto vedendola cosí. «S’è rimessa?» le domandò.

      «Lo vede!» rispose ella tranquillamente.

      Prendevano il caffè in giardino; Velleda posò la chicchera sulla tavola di marmo, e si mise a dondolare su di una poltrona di legno: «E il suo amico non torna piú?» domandò dopo qualche tempo ad Alberto. Ei rispose, con un po’ di sorpresa: «Verrà domani o doman l’altro».

      «Ah!»

      Si alzò, lasciò i due cugini in giardino, e andò a mettersi al piano. Il tocco della sua mano era secco, nervoso, quasi aspro; la melodia errava scucita, e come soffocata in mezzo ad un nembo di accordi tempestosi; c’era l’indolenza, la sprezzatura, la sbadataggine di chi va seguendo sui tasti i propri pensieri, e non si cura di afferrarli. Quella strana musica irrompeva dalle finestre aperte, e soverchiava, direi turbava, la pace solenne della sera, sembrava udirvi scoppi d’allegria e gemiti soffocati, e aveva qualcosa della leggiadria bizzarra della suonatrice.

      Alberto si avvicinò al piano, e stette a guardar Velleda. Ella sembrava una statua di marmo che suonasse; calma, impassibile, cogli occhi fissi sulla carta.

      «Canterai qualcosa?» domandò Adele

      Ella scosse il capo continuando a suonare, poscia smise, e si alzò.

      «Cosí presto!» disse Alberto «Continui a suonare almeno.»

      Velleda alzò freddamente gli occhi su di lui, e gli domandò:

      «Cosa desidera?»

      «Ma… quel che le pare.»

      Ella si mise a sfogliare della musica senza aggiungere verbo, l’aggiustò sul leggío, e incominciò una canzone di Schubert.

      Adele erasi messa a sedere sul canapè. Alberto, appoggiato alla coda del piano, teneva gli occhi fissi sulla suonatrice: costei non levava i suoi dalla carta, con certa altera freddezza; metteva tutta la sua anima nelle mani, di cui gli anelli scintillavano assai piú dei suoi occhi e vedevasi solo che

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