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l’hanno detto» rispose.

      Quel rossore fece dileguare in un lampo dalla mente di Alberto la leggiadra apparizione ch’egli avea scorto dietro la persiana e che luccicava ancora nel suo pensiero, come un raggio di sole irradiasi, anche dopo chiusa, nella pupilla che abbagliò. Egli levò gli occhi a quella finestra di faccia alla sua, dove la sera innanzi gli era sembrato veder del lume, esitò un istante, ma non aprí bocca. Sembravagli sentire tremare il braccio di lei, e che vaghi rossori fuggitivi le passassero con una trasparenza alabastrina, sul bel viso che teneva chino, e sul collo delicato.

      S’erano seduti sotto il pergolato. Ella gli parlava con quella dolce favella della fanciulla toscana che somiglia a cinguettio d’uccelletto; sorrideva, arrossiva, giocherellava cogli sgonfietti del suo vestito e colle foglie del pergolato; era tutta festante, e si voltava ad ogni momento per veder comparire Velleda che non veniva mai. Le ombre delle frondi sembravano accarezzarla alternando la luce sul suo viso; il venticello, di tanto in tanto, faceva strisciare leggermente il lembo della sua veste sui piedi di lui. Egli respirò con forza, quasi con voluttà, e sorrise; ella respirò del pari e sorrise.

      «O perché?» gli domandò ancora sorridente.

      «Sento allargarmisi i polmoni.»

      «È l’aria montanina.»

      «Come fa bene!»

      «Non è vero!» e si tacquero.

      «Ti piace la campagna?» riprese ella poco dopo.

      «Sí.»

      «Ci starai volentieri?»

      «Volentierissimo.»

      «A me piace tanto!» esclamò ella battendo le mani tutta sorriso.

      «Ti piace stare a guardare la luna dalla finestra?» domandò tutt’a un tratto e bruscamente il cugino, come rispondendo ad un pensiero insistente.

      «Sí…»

      «Anche a me!» e divenne pensieroso.

      «Non ti par di voler amare la luna?» riprese quindi con certi occhi che luccicavano singolarmente; «e che quella dolce luce ti piova sul viso come rugiada, e ti rinfreschi il sangue, e ti accarezzi le chiome, e che le stelle scintillino come occhi innamorati, e che il venticello notturno baci mormorando le foglie e i fiori, e che i fili d’erba si agitino in leggiadri abbracciamenti, e che i tuoi sguardi cerchino lassú, in quella pallida luce, gli sguardi della donna… cioè, tu, dell’uomo…»

      S’imbrogliò, balbettò, l’enfasi sbollí, e tacque arrossendo. Essa non rispose; dapprima avea spalancato tanto d’occhi a quella sfuriata; poi avea chinato il capo, col viso di fiamma, s’era tirata un po’ in là, e s’era sentito il cuore grosso di non so che sospiri.

      «Andiamo a trovar Velleda?» disse dopo qualche momento, levando su di lui i begli occhi imbarazzati.

      Ei la seguí. «Oh, il bel fiorellino!» esclamò la giovinetta; il cugino lo raccolse e glielo diede.

      «Grazie!» diss’ella «ma anche il mio mazzolino è bello, non è vero?» e si mise a ridere. In quel momento erano giunti sotto la finestra di lei.

      «È quella la tua finestra?» domandò Alberto con un lieve tremito nella voce.

      «…Sí…» rispose Adele. «Ecco Velleda, finalmente!»

      E le si buttò fra le braccia, coprendola di baci; la prese per mano, e si mise a correre con lei.

      «Perché corri cosí?» le domandò Velleda.

      «Mi sento le ali» diss’ella «e vorrei volare!»

      VI

      Quella sera lo zio Bartolomeo ritornò tardi dalla Sassosa, non si parlò di passeggiate in giardino, e i lumi si spensero di buon’ora a villa Forlani. Alberto stette inutilmente delle ore parecchie alla finestra, sperando rivedere quel tal lume dietro quella tal persiana; ma la persiana rimase pudicamente chiusa, come stanno abbassate le lunghe ciglia di una vergine cui si parli d’amore. Sembravagli che quel filo di luce gli avrebbe irradiato il cuore di tutte le aureole che ci sono in una dolce confessione, che quella finestra chiusa stesse pensando a lui, e che dietro quelle imposte Adelina dovesse trasalire, come lui, allo stormire di quelle frondi che il venticello agitava mollemente, o che stesse arrossendo, sentendosi accarezzare il viso da quel medesimo profumo di gelsomini che carezzava il volto anche a lui. Dolci sogni dei vent’anni che le bufere della vita fanno svolazzare qualche volta sul cuore dell’uomo, persino quando il sorriso dello scetticismo gli ha già increspato le labbra.

      Lo zio Forlani aveva messo in campo una gita alla Sassosa; i cavalli impazienti scuotevano le sonagliere, e le giovanette si facevano aspettare. Finalmente comparve Adele un po’ pallida, e con un sorriso rugiadoso. Appena vide Alberto si fece rossa rossa.

      «Buon dí, cugina!» Ella gli sorrise dolcemente, e gli porse la mano calda e febbrile.

      «Sempre l’ultima!» disse ridendo Velleda, che scendeva di corsa infilandosi i guanti. «Il mio cappellino non voleva saperne di star fermo! Che hai? Come sei pallida!»

      «Ho dormito male» rispose Adele tornando ad arrossire.

      Alberto sentí balzarsi il cuore in petto.

      Lo zio Bartolomeo sopraggiunse in tempo, come se avesse avuto l’intuizione delle situazioni delicate.

      «Andiamo, figliuoli, che il sole è già alto.»

      «Come sei bella oggi!» disse Velleda all’Adele, allorché furono sole.

      Scorse in tal modo una settimana. Velleda sorprese piú volte la sua amica cogli occhi pieni di lagrime:

      «O cos’hai?» le domandava.

      «Nulla, ho il cuore troppo pieno.»

      Lo zio Bartolomeo, da uomo che sa far le cose, avea preparato al nipote una grata sorpresa. La domenica successiva giunse da Pistoia anche Gemmati, e la sera ci fu gran veglia alla villa Forlani. Vennero dei vicini, il notaio Zucchi colla sua signora, ed altri tre o quattro. La serata scorse rapidamente in cosí bella compagnia; Alberto vicino al suo amico fu piú allegro del solito, ed anche chiassone; Gemmati era un bel giovanotto, tagliato un po’ grossolanamente, ma gioviale spiritoso e simpatico; Velleda, che sapeva annoiarsi con garbo, come una signorina ammodo, pestò sul piano tutto quello che vollero; Adele fece vedere l’album alla signora Zucchi, e voltò le pagine a Velleda; Alberto l’aiutò di tanto in tanto, per avere il pretesto di starle vicino, di toccare la sua veste o la sua mano nel voltare i fogli; poi le tenne il broncio perché ell’era gaia e spensierata, non cercava di guardarlo negli occhi, discorreva col primo venuto, ed evitava che le loro mani s’incontrassero. Andò a sedere su di un canapè, rannuvolato in viso, e lanciandole di tempo in tempo occhiate di fuoco. L’Adele che vedeva tutto cotesto armeggío come lo vedono le ragazze, colla coda dell’occhio, se la godeva ch’era un gusto.

      La signora Zucchi, che la pretendeva ad elegante di provincia, si dava un gran da fare per mostrarsi disinvolta, ed era sempre in moto, ora ad annoiare il signor Forlani che giocava a scacchi col notaio, ora ad interrompere Velleda mentre suonava, ora a far la bambina con Adele, o la civettuola con Gemmati. Finalmente si pose a sedere sul canapè dove era il marchesino, facendo mille moine per attirarsi l’attenzione del bel biondo, che se ne stava rincantucciato all’altra estremità del canapè, con un certo viso da far credere che fosse in collera colla signora Zucchi.

      Uno dei vicini aveva recato una gran notizia: si aspettava la contessa in villa Armandi – la bella contessa Emilia dicevasi.

      «Non dev’esser piú giovanissima la bella contessa!» disse l’elegante signora Zucchi.

      «Tutta Firenze parla di lei, e piú d’uno ha fatto delle pazzie…»

      «Grazie tante!…» rispose la Zucchi assettandosi virtuosamente sul canapè. «Se non è che questo!…»

      Il signor Forlani tossí; Velleda suonò un accordo fragoroso che non era segnato sulla carta, e Adele spalancò tanto d’occhi. Anche il notaio borbottò prudentemente: «Hum! hum! tutti i matti non sono all’ospedale!…».

      Velleda

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