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beata l’erba che calpestava; il sorriso di lei era affascinante, lo sguardo profondo ed un po’ altero, l’accento carezzevole, il vestito avea artificiose semplicità, e la blonda pudiche civetterie – ecco che cosa era quella fanciulla che frustava i ramoscelli con un virgulto di salcio, e che si chiamava Velleda, al modo stesso che era bionda, che era capricciosa, che era elegante, e che un bel fiore da stufa ha un bel nome straniero. Ella sembrava sopraffare la verginale leggiadria della sua amica col semplice portamento superbo del capo, o con un solo de’ suoi sorrisi affascinanti. Adele era magrina, delicata, pallidetta, cosí bianca che sembrava diafana, e che le piú piccole vene trasparivano con vaga sfumatura azzurrina; avea grand’occhi turchini, folte trecce nere, mani candide e un po’ troppo affusolate; il vento, innamorato, modellava le vesti sul suo corpiccino svelto e gentile come una statua d’Ebe; i movimenti di lei avevano certa elasticità carezzevole e felina; – accanto a ciò una timidità quasi selvaggia, un sorriso spensierato, e dei rossori improvvisi. Un conoscitore avrebbe indovinato nella leggiadria modesta e quasi infantile della fanciulla il prossimo sbocciare di una bellezza tale da rivaleggiare con quella della superba bionda; ma Alberto non era conoscitore, e allorché la cuginetta gli corse incontro stendendogli le mani e salutandolo col suo grazioso rossore, i capelli biondi, la veste di seta, e lo sguardo da regina dell’altra gli si gettarono, direi, alla testa, in un lampo. Povera Adele! se avesse potuto udire il ronzío di tutti quei calabroni inquieti che si destavano nella mente di Alberto, mentre ella credeva di fare una presentazione in regola, dicendo: «Mio cugino!» «La signorina Velleda!»

      La signorina Velleda fece una bella riverenza da ballo, ed Alberto se ne rammentò scrivendo il giorno stesso all’amico Gemmati: “Se avessi visto con quanta grazia inchinandosi spingeva indietro il suo vestito!”.

      Velleda andava innanzi, giocherellando sempre colla sua bacchettina a mo’ di frustino, un po’ da bambina capricciosa, un po’ da leggiadra civettuola. Allo svoltar d’un viale scomparve.

      Adele, che chiacchierava col cugino, tutta giuliva, arrossí improvvisamente, ed Alberto se ne avvide.

      «Che hai?» le domandò.

      «Il babbo non sa nulla del tuo arrivo… cerco di vederlo.»

      Il babbo li vedeva benissimo dalla sua finestra, e si fregava le mani.

      Al rammentarsi dello zio il giovane si fe’ scuro in viso, e pensò agli esami andati a monte. Ma lo zio, ch’era il miglior zio del mondo, abbracciò teneramente il nipote, come se costui non avesse delle palle nere sulla coscienza; anzi a tavola comparve un certo fiasco di vecchio chianti, di quel delle grandi occasioni, e se l’avessero lasciato fare, lo zio avrebbe fatto crepare il nipote di indigestione, per provargli la sua tenerezza. L’Adele fu ciarliera e taciturna a sproposito, la signorina Manfredini disinvolta e piena di brio, Alberto un po’ imbarazzato, un po’ distratto, e di quando in quando aveva certi assalti di allegria che gli montavano al viso, gli luccicavano negli occhi e si risolvevano in bizzarre effusioni di affetto per lo zio Bartolomeo.

      «La bella luna!» esclamò Adele affacciandosi alla finestra. «O che non si va in giardino?»

      Velleda, interrogata a quel modo, si mise a ridere.

      «Vacci anche tu» disse lo zio ad Alberto, che non faceva le viste di muoversi.

      «E lei, zio?»

      «O cosa vuoi che venga a farci io? Ci ho il mio giornale da digerire. Vai pure.»

      IV

      Le due ragazze irruppero in giardino allegre e chiassose; la luna sembrava inondarle di un pallido chiarore, traeva dei riflessi turchinicci dai capelli di Adele, dava un che di vaporoso a quelli di Velleda, luccicava sulla seta, giocava colle ombre, frastagliavasi fra i cespugli, disegnava nettamente in bianco i viali; il cielo era terso, leggermente azzurro; le gaie voci e gli allegri scrosci di risa avevano cristalline sonorità.

      «Sono stanca!» disse Adele lasciandosi andare su di un sedile, e raccolse la sua vesticciuola volgendosi verso di Alberto con un tacito invito; costui che chiacchierava spensieratamente tacque all’improvviso.

      «Ho dimenticato il mio scialletto» disse Velleda con singolare vivacità.

      «Andrò a prenderlo» rispose premuroso Alberto.

      La ragazza non poté dissimulare un sorriso maliziosetto.

      «Grazie, non s’incomodi» rispose, e partí correndo.

      Adele s’era ritirata in là per far posto al cugino accanto a lei; ma egli si mise a passeggiare innanzi e indietro, gettando di tempo in tempo sguardi avidi e imbarazzati sul sedile.

      «Vuoi metterti a sedere?» diss’ella.

      «No… grazie… non ti comoda?»

      «Che!»

      Ella si mise a strappare le foglie del rosaio. Alberto accavallava ora una gamba ora l’altra, guardava gli alberi, il viale, la punta dei suoi stivali, e non sapeva che farsene delle mani.

      «Mi permetti di fumare?» disse dopo un lungo silenzio, e come se avesse fatto una grande scoperta.

      «Fai pure.»

      Egli trionfante accese un sigaro, e si diede a buffare il fumo con enfasi.

      «Ti dà noia il fumo?» le domandò.

      «No» rispose Adele tossendo e fregandosi gli occhi.

      E tacquero di nuovo.

      «Bella sera!» esclamò finalmente Alberto col naso in aria.

      «Bellissima.»

      «E punta fredda!»

      «Punta.»

      «È un pezzo che non ci vediamo, sai!»

      «Due anni.»

      «È vero.»

      Ella lo stava a guardare seria seria.

      «Hai imparato a fumare!» gli disse finalmente con un sorriso, e come se gli confidasse un segreto che nascondeva da qualche tempo.

      «Cosa vuoi, i vizi si imparano facilmente!» rispose Alberto con gravità.

      «Però il sigaro ti sta bene!»

      Ei la guardò nei grand’occhi turchini che luccicavano al chiaro di luna, chinò i suoi prestamente, e si soffiò il naso. Adele riduceva in pezzi minutissimi le foglie che avea strappato dal rosaio.

      «Ma il tuo giardino è molto bello!» disse finalmente Alberto.

      La giovanetta guardò attorno, come se vedesse quegli alberi per la prima volta, e rispose:

      «Sí, molto bello.»

      «Una delizia!»

      «Una vera delizia. Quella fontana lí ce l’ho voluta io.»

      «Davvero?»

      «Sí, non è bellina?»

      «Bellina tanto!»

      «È tutta di marmo, sai!»

      «Oh!»

      «Il babbo non voleva, per via della spesa…»

      «Deve aver costato parecchio!»

      «Altro! Ma il babbo mi vuol tanto bene!»

      «Oh! (in un altro tono).»

      «E anche te, sai, ti vuol bene!»

      Il dialogo che si reggeva sui trampoli, minacciò d’inciampare in quel sassolino.

      «Ha detto che ti terrà qui sino a novembre» soggiunse Adele vedendo che il cugino stava zitto.

      «Ma…»

      «Ti rincresce?»

      «No!… no…!»

      «Non ti annoierai?»

      Egli si volse, la guardò, poi si mise a scuotere col mignolo la cenere del sigaro Adele rimase alquanto pensierosa, la povera bambina, e soggiunse, un po’ trepidante: «Ci starai volentieri?»

      «Figurati!»

      «Anche Velleda ci starà sino

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