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Alcuni giorni dopo l’incontrò in giardino per la prima volta sola colla larga manica svolazzante sul braccio, il viso colorito dei rosei riflessi dell’ombrellino, lo sguardo vagabondo, l’andatura graziosamente indolente. Ella si fermò su due piedi, gli stese la destra, e gli disse con una sicurezza di frase e d’intonazione che parve pesare come una mano vigorosa sulla spalla di lui:

      «E Adele?»

      «Non l’ho ancor vista.»

      Ella sorrise come sapeva sorridere alcune volte, e disse: «Ooooh!…» Alberto arrossí per timore di farsi rosso.

      «La troveremo forse sulla terrazza, dove il signor Forlani sta facendo collocar dei vasi di fiori» soggiunse. «Vuole accompagnarmi?»

      E andarono pel viale, l’uno accanto all’altra. Le leggere balzane del vestito di lei sussurravano sugli stivalini di pelle lucida.

      «Le piace la campagna?» incominciò Alberto dopo alcuni passi.

      «Tanto!»

      «Ci fa delle lunghe passeggiate?»

      «Sl.»

      «Non si vede quasi mai la mattina!»

      Ella si voltò a guardarlo, con una sfumatura di sorpresa, e inchinò leggermente il capo, un po’ ironica.

      «Prima eravamo in due a correr pel giardino» soggiunse tosto come a scancellare l’effetto del suo saluto. «Ma adesso l’Adele è sempre stanca.»

      «E non si annoia ad andar da sola?» si affrettò a rispondere Alberto.

      «Perché dovrei annoiarmi?»

      «È pur vero che alle volte si preferisce stare in compagnia dei propri pensieri…»

      «Che pensieri?» interruppe Velleda bruscamente, fissandogli gli occhi in viso.

      Essi rimasero un istante a guardarsi in tal modo.

      Lo zio Bartolomeo, che stava lí presso, gridò, come se avesse indovinato la situazione scabrosa:

      «Ehi, ragazzo, chi vuol vedere la bella carrozza? Correte sulla terrazza.»

      Passò infatti un cocchio superbo, luccicante di vernice, di stemmi dorati, di livree gallonate, di campanelli, adorno di nastri e di fiori, alle testiere dei cavalli e agli occhielli dei postiglioni; i razzi delle ruote brillavano al sole come rapide ali di uccello; un sottil velo di polvere avvolgeva il legno elegante, imbottito di seta come un elegante scatolino, e la bella signora che vi stava mezzo sdraiata, appoggiando i piedi al sedile di faccia, con posa indolente, in mezzo ad una nuvola di mussolina fresca e leggiera come il tulle; il velo azzurro del suo cappellino svolazzava su tutto quell’assieme leggiadro.

      «La bella signora!» esclamò ingenuamente Adelina che era venuta correndo.

      «È la contessa Armandi» disse Velleda.

      Alberto l’aveva seguita con un lungo sguardo.

      Tornarono indietro pel desinare, e lo zio andava innanzi piú lesto degli altri, dicendo che avea fame. Di tanto in tanto Alberto rimaneva pensieroso, e non rispondeva subito, o rispondeva a sproposito alle interrogazioni e ai discorsi delle due ragazze, che sembravano festanti tutt’e due. A tavola parlò due o tre volte della contessa Armandi e dopo desinare andò a fumare in giardino.

      Si sentiva gonfiare in petto i germi di tutte le forme dell’amore, come un rigoglio di vita, come acri fiori di giovinezza: era uno strano miscuglio degli occhi turchini di Adele, del suo sorriso pudico, e delle lusinghe, dei biondi capelli di Velleda, della sua elegante civetteria piú in là, fra le nuvole azzurre e purpuree dell’avvenire, ondeggiava vagamente la larva di un altro amore nebuloso come la mussolina che modellava il bel corpo della contessa Armandi, sdraiata mollemente nella carrozza come in un letto. – Tutti cotesti fantasmi gli turbinavano confusamente nella mente, gli scorrevano per le vene col sangue acceso di febbre. – Quel fanciullo che cominciava a sentir la donna aveva bisogno di piangere.

      X

      Allora fu recato in villa un invito pel ballo della contessa Armandi.

      Andarono in una magnifica sera d’autunno. Le siepi fiorite esalavano vigorosi profumi; le sonagliere dei cavalli avevano un non so che di festoso; le fruste dei postiglioni scoppiettavano allegramente; l’ultima squilla dell’avemaria moriva in lontananza, coll’ultimo raggio di sole che colorava di tinte opaline uno strappo di cielo. Poi venne la notte, tacita, stellata.

      Il giardino della villa Armandi era illuminato, la scala adorna di fiori, tutte le finestre brillavano come le lenti di una lanterna magica. – Alberto guardava avidamente attraverso un’iride di tappezzerie, di colori, di dorature e di specchi, vedevasi un via vai di gente in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe ed occhi vellutati, c’era una carezza di musica, di frasi leggiadre e di raso che frusciava – e in mezzo a tutto questo una donna piú bella, piú elegante di tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.

      Era una delicata bellezza: l’occhio nero, superbo, profondamente e voluttuosamente solcato, l’andatura, la voce ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come le foglie di magnolia, ondulati in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il seno squisitamente modellato nell’avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine, vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste susurrante in modo carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso affascinante. – Ella aveva quarant’anni.

      Allorché si trovarono faccia a faccia con Velleda, coteste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti, mentre s’inchinavano graziosamente. – La contessa sorrise all’Adele, al signor Forlani, e si voltò a guardarlo mentr’egli si allontanava.

      Tutti gli sguardi seguivano la signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura c’era un che d’impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi, e dilatavasi colle rosse narici, mentre ella agitava il ventaglio chinese. Anche Alberto sorprese sé stesso a seguire la direzione di tutti gli sguardi, e fissava lungamente la contessina – poscia, inquieto, cercò cogli occhi l’Adele

      Velleda stava presso il pianoforte circondata dai piú eleganti giovanotti, come una cerbiatta attorniata da una muta di cani; ma la cerbiatta teneva testa da tutte le parti, col brio, col sorriso, con una parola, con un gesto, spiritosa, caustica, leggiadra e impertinente. Due o tre volte volse a caso gli occhi su di Alberto, e ad un tratto gli fece segno col ventaglio di avvicinarsi; prese il braccio di lui e si allontanò.

      «Non ne potevo piú!» disse ridendo.

      Il povero giovane si sentí tutto sossopra.

      «È naturale che tutti le facciano la corte…» balbettò.

      «Vorrebbe farmela anche lei?» diss’ella con un accento e un sorriso singolari.

      Alberto ammutolí, e a lei il sorriso morí sulle labbra.

      Passeggiarono lentamente per le sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.

      «Com’è bello!» esclamò Alberto.

      «È Strauss,» rispose ella distratta.

      «O perché non si balla un giro?»

      «A proposito della corte?» diss’ella sorridendo.

      Alberto volle sorridere colla medesima disinvoltura, ma ci riescí assai male.

      «Ebbene…» disse «sí!»

      «No!» rispose ella col medesimo tono, ma un po’ piú recisamente.

      Il giovane insistette con insolito calore; ella diveniva piú capricciosa e piú ostinata, scuoteva il capo con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso, appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava piú ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente

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