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che debbano risvegliarvi per l'ora solenne del giudizio, bensì di tormentatori esimii, che v'impediscano di prender sonno, e vi lascino, vittima consapevole e invano repugnante, in balia dei loro amici e commensali, dopo avervi succhiato essi medesimi qualche oncia di sangue.

      Il signor Aminta aveva tirato in disparte il padrone di casa e gli stava facendo sottovoce un lungo discorso. Il conte Gino capì che egli raccomandava al contadino qualche utile novità, per rendere abitabile quel bugigattolo, e discretamente si tenne lontano; anzi andò verso la finestra, da cui si aveva una veduta ristretta di cielo, ma per contro abbastanza bella, per il verde intenso della montagna.

      Poco stante, il suo compagno gli venne accanto, poichè aveva finito di ragionare con quell'altro.

      – Che cosa le avevo detto io? – incominciò. – Non si sta bene, a Querciola. Ma oramai, sia bene o male, l'alloggio lo abbiamo, ed ogni commissario che il governo ducale può mandare quassù ad accertarsi della osservanza dei suoi precetti, troverà il condannato nel suo carcere. Ma per ora, siccome Ella non è condannato a morire di fame, venga a far colazione.

      – Andiamo; – rispose Gino. – C'è un oste a Querciola?

      – No, – disse Aminta, – ma Ella ha qui il suo cavallo. —

      Il conte Gino sorrise, e solamente le buone creanze lo trattennero dal fare una matta risata. La risposta del signor Aminta gli richiamava alla mente gli esercizi del tedesco, insegnati col metodo dell'Ollendorf. – «Avete voi veduto il mio caro zio? – No, ma io ho trovato il vostro buon temperino.»

      – Che c'entra il cavallo? – domandò egli allora.

      – C'entra, – rispose Aminta, – per escire da Querciola e ritornare alle Vaie. In un'ora siamo venuti quassù; in tre quarti d'ora saremo di ritorno a casa.

      – Ma, veramente… – balbettò Gino. – Non sarà un abusare della loro cortesia?

      – Che! – disse Aminta, – In primo luogo ci aspettano. In secondo luogo, la farebbe magra, a star qui fin d'oggi, ed è già molto che venga a dormirci stasera. In terzo luogo, spero bene che accetterà di venire tutti i giorni a desinare da noi. È il desiderio di mio padre, che aspettava per l'appunto a dirglielo quest'oggi.

      – Tutti i giorni, poi! – esclamò Gino, confuso.

      – Ebbene? Che difficoltà ci trova? Il cavallo sarà sempre a sua disposizione qui sotto. Mi sono inteso col bravo Mandelli, perchè faccia subito un po' di pulizia nella stalla, e credo, – soggiunse Aminta, ridendo, – che la cosa gli riesca molto più facile dell'altra, di mettere in assetto questa camera. Ella dunque non avrà che due corse da fare ogni giorno: una per aguzzar l'appetito, e l'altra per avviare la digestione. Badi a me, signor conte: in questi luoghi bisogna andare, andar sempre; è l'unico rimedio per non morire di noia, e per non diventar scimuniti.

      – Capisco; – disse Gino. – Se non incontravo ieri la provvidenza dei Guerri, povero a me! finivo male, con questa bella alternativa. —

      E rimontò a cavallo e si avviò per la discesa, col suo gentilissimo ospite, a cui propose subito di lasciare da banda le cerimonie, passando dal noiosissimo lei al grato e italianissimo tu. Del resto, non era egli stato accolto come figlio, nella casa dei Guerri? E non doveva trattare Aminta come un fratello?

      Vi ho detto dianzi, quando eravamo nella casa Mandelli, che la veduta era molto ristretta. Ma la prospettiva oramai si allargava, per il conte Gino Malatesti. Di lassù, anche tra i cerri e gli abeti, vedeva già tante cose in lontananza! La bella Minerva galeata, per esempio; e mi pare che basti.

      Così sempre avviene, del resto, e non c'è da maravigliare per questo fenomeno di ottica, che è la cosa più naturale del mondo. Non sono soltanto i colori, che hanno la loro sede nel nostro occhio, come vogliono i fisici. Noi facciamo spesso la nostra prospettiva aerea nel profondo del cuore, e non abbiamo mestieri dell'azzurro dei cieli, quando il sereno è nell'anima nostra.

      Gino fu accolto con gran festa alle Vaie. Come aveva trovato il soggiorno di Querciola? Brutto, naturalmente; ma tanto meglio per i Guerri, che avrebbero avuto la fortuna di vedere il loro ospite più spesso. Si capisce che tornò in campo la proposta già fatta da Aminta, e che il conte Malatesti credette obbligo di piccola cortesia schermirsi un pochino, ma obbligo di vera riconoscenza accettarla. Per intanto, volendo adattarsi agli usi della famiglia, ricusava di far colazione. I Guerri pranzavano a mezzodì, e cenavano alle sette Erano allora le dieci, ma Gino non aveva fame, poteva aspettare, sarebbe stato felicissimo di aspettare il mezzodì. Per la cena, s'intende, avrebbe dovuto contentarsi di farla a Querciola.

      Tutte queste cose furono presto discusse e concertate. Poi il signor Francesco e suo figlio Aminta si ritirarono, avendo qualche negozio da sbrigare, e il conte Malatesti se ne andò in giardino, anche per lasciar libere le signore di attendere alle faccende domestiche da quelle buone massaie che erano certamente, e desiderose di dar occhio a tutto nel governo della casa.

      Poca cosa, il giardino, non essendo la stagione ancora molto inoltrata. Quella primavera, il Cimone aveva raccorciato, ma non buttato via, il suo mantello di neve, e le notti delle Vaie erano ancora freddine, ma accanto al giardino scarno si vedeva la stufa, e questa era piena di vasi d'ogni grandezza, disposti in ordine, a scaglioni, tra cui si poteva passare comodamente, ammirando una bella varietà di piante, anche delle specie più rare. Gino Malatesti ammirò una graziosa raccolta di eriche, coi fiorellini fitti fitti, foggiati a campanule bianche e vermiglie.

      Mentre stava osservando quelle eriche, non sapendone il nome e la provenienza, ma indovinandone il pregio, gli baluginò davanti agli occhi la fanciulla dei Guerri, escita allora dal porticato della casa alla luce aperta del giardino. Lasciò subito di guardare le piante e si avanzò verso l'invetriata della stufa, per veder meglio la gloriosa apparizione, che incedeva snella e leggiera tra le aiuole deserte di fiori. Era essa il fiore del giardino, il giglio delle convalli, e la sua bellezza verginale si accordava maravigliosamente con quella dell'agreste natura.

      – Bella ragazza, in fede mia! – disse Gino tra sè. – Chi sarà il felice mortale che la sposerà? Mi pare che abbia l'età da marito, oramai. Ma qui ci saranno partiti per lei? Questi re della montagna son ricchi, sicuramente; ma le loro pretese, dato il luogo, non possono mica essere troppo alte, o lo saranno solamente… sul livello del mare. —

      Quella scappata del suo pensiero lo fece sorridere; ma non s'indugiò, il pensatore, e riprese subito il filo del suo ragionamento.

      – Bella ragazza, in fede mia! – ripetè egli, come per pigliar la rincorsa. – L'uomo che la sposerà può dirsi fortunato fin d'ora. Ma forse, come troppo spesso avviene, sarà un uomo che non intenderà la propria fortuna. Questa fanciulla è un fiore alpino, ma cresciuto in una stufa, come queste eriche maravigliose. Suona con grazia e sentimento; conosce parecchie lingue; ha avuto certamente una educazione inferiore a questo livello barometrico, ma superiore a questo livello sociale. Dove sarà stata in conservatorio? A Modena, o a Reggio; fors'anche da quest'altra parte, in una città di Toscana. Mi pare d'indovinarlo da una certa rotondità di pronunzia, da una certa scioltezza di frase. Questi fiori umani, educati con gran cura per la vita elegante di una città, vengono ad avvizzir qua, tra boscaiuoli e caprai. Povere fanciulle! Vivono in un ambiente che non dovrebbe più essere il loro; risplendono inutilmente, nella delicatezza delle loro forme, ad occhi che vedono grosso come quelli de' buoi; spandono soavità di profumi per nari disavvezzate nel grave odore della terra smossa. E qui, care angiole, fanno delle torte, come la Carlotta del Werther, quando non lavano i pannilini al torrente, come la Nausicaa dell'Odissèa. Sì, ma poi fanno anche dei figliuoli robusti e belli come il signor Aminta, destri cavalieri e gran cacciatori, induriti al sole dei campi e all'aria sottile delle Alpi. Buona razza montanara, veramente italiana, all'antica! E infine, la vita non è meglio così, con una mente sana in corpo sano? Ma allora, tra questi usi patriarcali, a che serve la coltura dello spirito? Che sciocco son io! Serve per chi l'ha, gli tien buona e fidata compagnia, lo aiuta a vivere, facendogli intendere la rara bellezza di tutto ciò che lo attornia. Io stesso, che ho studiati i classici, non sento più profondamente il bello di questa natura agreste, e meglio che non faccia il popolo che ci è nato? Bella fanciulla dei Guerri, salute a voi!

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