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non piaccia disporre altrimenti. Così scriveva ier l'altro a mio padre il signor direttore di polizia. Come ella mi vede, signora Angelica, sono un condannato politico… e condannato senz'ombra di processo. —

      Ciò detto, gli parve di respirare più libero. Era finalmente venuto a capo di palesare il suo nome.

      La signora Angelica aveva fatto un gesto di commiserazione, ma non aveva proferito parola. Il signor Francesco, capo della famiglia, l'unico a cui sarebbe toccato di dire qualche cosa, era rimasto pensieroso, e, forse per non essere obbligato a parlare, aveva in quel punto afferrato il suo bicchiere di lambrusco, e lo tracannava d'un fiato.

      – To'! – disse Gino tra sè. – Son caduto in mezzo a duchisti. Il re della montagna è un buon suddito di Casa d'Este, come mio padre. —

      Per altro, se erano duchisti com'egli pensava, i Guerri non erano scortesi coi loro avversarii, quando questi rivestivano la qualità di ospiti, e le attenzioni di quella gente al forastiero nè crebbero per il suo titolo conosciuto di conte, nè diminuirono per il suo peccato egualmente conosciuto di cospiratore politico. La signora Angelica, riavutasi certamente dalla prima sensazione spiacevole, parlò del dolore che il signor Gino aveva dovuto provare, separandosi da suo padre e da tutta la sua cara famiglia. Gino riconobbe che infatti il dolore era stato a tutta prima fortissimo, ma che poi lo aveva temperato grandemente un pensiero di riverenza per suo padre. Il conte Jacopo era un fedelissimo suddito, e certamente, se poteva dolergli che il figliuolo, per qualche atto o parola che accennasse ad altre idee, avesse destato il sospetto dell'autorità, doveva anche piacergli, che quel figliuolo andasse confinato tra i monti, anzi che rimanere a Modena, sotto la vigilanza della polizia, e col pericolo di dare altri argomenti alla severità del governo ducale.

      – Dunque, signora mia, – conchiuse Gino, – bisogna ripetere col proverbio antico, che tutto il male non vien per nuocere. Mio padre è più tranquillo, ed io debbo esser felice della tranquillità di mio padre. Infine, ho fatto il male, ed è giusto che faccia la penitenza; una penitenza che, come vedo dai principii, non è punto dolorosa! – soggiunse egli, ridendo. – Resta sempre la necessità di andare a Querciola, lo so; ma per un buon vicinato si può anche accettare una cattiva residenza. Ella mi ha detto, signor Aminta, che Querciola è distante a mala pena un'ora di cammino dalle Vaie, non è vero?

      – Fortunatamente; – rispose Aminta. – E non credo che l'ordine del governo le vieterà di passeggiare nei dintorni.

      – Tanto più che io qui non avrò occasione di cospirare; – ripigliò il conte Gino. – La politica è bandita dai monti.

      – Eh, chi lo sa? – disse il signor Francesco, levando il suo bicchiere nuovamente pieno all'altezza dell'occhio, e guardando attraverso il cristallo la bella tinta del vino. – Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica? Politica d'analogia, lo capisco, ma sempre politica! —

      Qui il conte Gino si avvide di non aver mantenuto il suo giuramento, e di essere ricascato subito nel fallo di giudicare dalle apparenze. Peggio ancora, si era mostrato scortese coi monti, dicendoli alieni dalla politica, e il signor Francesco, pensatamente o no, aveva rivendicata la loro nobiltà di sentire. Il monte è l'aria libera, è l'abito, è l'istinto medesimo della libertà. Può dire altrettanto di sè la pianura?

      Ma il signor Francesco Guerri, avesse o non avesse rilevato il piccolo e sicuramente involontario errore del suo ospite, si era tenuto con la sua risposta assai alto, e proprio fra le nuvole, come qualche volta usava fare il Cimone. Si sa, la politica del monte non è intieramente quella del piano. Il conte Gino, del resto, anche senza badare a quelle sottigliezze di distinzione, non reputò necessario di tirare il re della montagna nei bassi strati delle applicazioni, delle necessità, degli ostacoli, della ragione storica e della topografica, in cui vanno spesso a battere e a naufragare i principii. Ricondusse abilmente il discorso alla vita e alle costumanze della città, avendo il piacere di tornar più gradito alle signore che lo ascoltavano.

      C'è nell'uomo una inclinazione naturalissima a dir male degli assenti. Ciò forse avviene perchè da lontano si vedon meglio le cose, e nella natura umana c'è più da criticare che da ammirare. Gino cedette alla tentazione, e disse male degli usi e delle mode cittadine: garbatamente, si capisce, sfiorando l'argomento, passando dall'uno all'altro come una farfalla spensierata, per il gusto di provar l'ali e di farle risplendere al sole. Allora, lo ricordate, usava il crinolino, quell'orrida gabbia fatta a campana, ma non tanto orrida come la gobba d'oggidì, che fa parer le signore tanti dromedarii rizzati sulle gambe posteriori. La critica del crinolino fece ridere Angelica, Olimpia e Fiordispina. È forse vero che i nomi imprimano carattere? Quelle donne che davano nei nomi loro l'illusione di essere uscite dal mondo poetico dell'Orlando Furioso, non potevano sicuramente non ridere delle goffe usanze del mondo moderno. E risero, come avrebbe riso Elena, sulle rive del patrio Eurota, se il dottor Fausto, scambio di parlarle il linguaggio eterno dell'amore, si fosse fermato a descriverle certe fogge d'allora, verbigrazia quel cartoccio da confetti che portavano sul cocuzzolo le donne tedesche del Quattrocento.

      E i cappellini, a proposito, i cappellini di quell'anno!.. Le piume di struzzo non si usavano più tanto; i fiori, partiti in due cascatelle e piantati tra l'ala del cappellino e la guancia, erano ancora in onore; ma i frutti accennavano già a voler prendere il posto dei fiori. Una moda fresca fresca era quella dei grappoli d'uva alle gote. Ne veniva la necessità di allargare a cerchio le falde laterali, sicchè la faccia delle donne paresse una luna in quintadecima. Si poteva dare di peggio? Ah, meglio, cento volte meglio, un fazzoletto di seta rigirato intorno alle tempia!

      – Vivaddio, se è una moda, – conchiuse Gino, – questa almeno si capisce. Io intendo l'ornamento della persona, ma voglio che non sia tale da aggravare, da trasformare la figura umana.

      – Non è una moda, per altro; è una necessità del nostro clima; – osservò Fiordispina. – Qui si è fuori di casa ad ogni momento, e l'aria di questi monti è sottile.

      – Ebbene, signorina, – riprese Gino, felicissimo di aver da disputare un pochettino con lei, – veda come la necessità è stata più graziosa della libera scelta. Ne è venuta fuori una foggia d'acconciatura, che ha un solo difetto, quello di nasconder troppo i capegli, ma che seconda benissimo i contorni della testa, non ne guasta le proporzioni, non ne turba i rapporti con tutto il rimanente della persona. Quel cappellino a cuffia, dalle ali larghe e tondeggianti, che si usa laggiù, con tanta esposizione di erbaggi al posto degli orecchi, e con quel gran fiocco di nastri sotto il mento, è una vera iniquità. Le madonne bisantine non sono niente più goffe, esteticamente parlando, dalle nostre signore, vestite all'ultima moda di Parigi. —

      Marchesa Polissena, e voi passavate per la Dea delle ultime mode, nella città della Bonissima! La vostra immagine, aggravata dall'aureola bisantina del cappellino a cuffia, coi grappoli d'uva alle guance, col gran nastro diffuso in due larghe staffe sotto il mento e in due non meno larghi capi pendenti sul petto, con la vasta mantiglia di velluto, ornata di trine e di frange, scendente con ampio giro sulla cerchia mostruosa di una veste che s'accostava al diametro della campana maggiore della Ghirlandina, la vostra immagine, dico, non si offerse in quel punto agli occhi di Gino Malatesti?

      Pare di no. Il conte Gino, vivendo a Modena, nelle consuetudini eleganti de' suoi pari, non aveva avuto mai occasione di meditare sulle esagerazioni della moda. Solamente lassù, tra quei monti, dove la bella natura regna sovrana e vuole ogni cosa accomodata, proporzionata a sè, Gino Malatesti si accomodava, si proporzionava all'ambiente anche lui; era perciò naturale che certe esorbitanze, non vedute, o non osservate da prima, gli saltassero agli occhi, gli strappassero dalle labbra una parola di critica. Le critiche, poi, sono come le ciliegie; quistion di stagione per queste, e di momento opportuno per le altre.

      Era dunque dimenticata, per allora, la marchesa Polissena. Lo spirito dell'uomo ha le sue interferenze come la luce del sole. E in quei discorsi allegri parve anche dimenticata la storia del condannato politico. I discorsi, finalmente, furono interrotti dall'arrivo del prete, accolto a festa, mentre la bella Fiordispina preparava il caffè.

      – Don Pietro! – gridò il re della montagna. – A quest'ora si viene?

      – Che dirle, signor Francesco? Sono stato chiamato

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