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permetta almeno di cambiar abiti; – diss'egli, che aveva vedute le sue valigie deposte in un angolo. – È affar di cinque minuti.

      – Per che fare? – rispose il signor Francesco. – Ella è molto bene, così, e ci farebbe torto a volersi mettere sulle cerimonie. Via, ci contenti, e venga com'è. —

      Gino si acquetò, vedendo che la miglior cerimonia era lì per lì l'obbedienza. E il signor Francesco, presolo amorevolmente per il braccio, lo condusse verso l'uscio.

      – Mi permetta allora, – riprese Gino, che aveva sempre bisogno di qualche cosa, – mi permetta allora di dirle il mio nome.

      – Poi, poi! – interruppe il vecchio. – Ci sarà sempre tempo. Ella è una persona garbata, e noi non avremmo merito nel riceverla, se non conoscessimo il cavaliere all'aspetto.

      – Pure, – ripiglio Gino, – sarei tanto lieto di dirle il mio nome. Per obbligo di reciprocità; – soggiunse. – So infatti che Loro son Guerri.

      – Bene, si consideri per oggi un Guerri anche Lei, un fratello minore, un figlio della famiglia; – replicò il signor Francesco. – Le dispiace, forse?

      – No, davvero, e quando è così non parlerò più del mio nome, neanche domani; – disse Gino sollecito. – Son Gino Guerri, adunque. È un bel nome; suona bene! —

      E rideva, il giovanotto, ed entrò ridendo nella gran sala, dove in quel frattempo era stata apparecchiata la mensa.

      Qui, se io sapessi di esser letto da gente digiuna, amerei descrivere la tavola e le dodici, proprio dodici, qualità diverse di principii che facevano bella mostra di sè nei piattellini disposti in ordine, a destra e a sinistra di un vaso antico di Faenza, che torreggiava nel mezzo, pieno riboccante di fiori. Gino ammirò quello sfoggio, che dalle olive di Lucca andava fino alle sardelle di Nantes, passando per le acciughe della Gorgona, e che dalle polpettine di cipolla e prezzemolo, in salsa di capperi, si arrisicava fino alle altezze squisite del salmone rosato di Nuova York, passando per tutte le conserve, distinte di tanti nomi, del tonno di Sardegna, che ha certamente i suoi pregi. Pensate pur male di me, povero narratore, che vi sembrerò un ghiottone, ma non pensate male del mio eroe, che ammirò lo sfoggio della quantità, senza fermarsi ai particolari, e che volse subito la sua attenzione al vasellame. I piatti di mezzo, i tondi o le scodelle dei posti in giro, erano tutti di vecchia maiolica, e portavano tutti dipinto nel centro lo scudo dei Guerri, con la spada in palo e con la leggenda che sapete. Il finimento apparteneva per lo stile dell'opera alla prima metà del secolo scorso, e i gialli vivi e gli azzurri spersi, e la ricchezza degli ornati, dicevano chiaramente che quel vasellame era uscito da una delle migliori fabbriche di Romagna.

      Gino ammirava ancora, abbracciando con l'occhio tutta quella ricchezza ceramica, quando dall'uscio di rincontro apparvero due signore.

      – Ah, ecco le nostre donne! – disse il signor Francesco. – Ora Ella farà un po' di conoscenze in famiglia. —

      La prima che si avanzava era un bel tipo di donna attempata, coi capegli brizzolati, ma la carnagione ancor fresca e lucente.

      – Mia sorella Angelica; – ripigliò il signor Francesco. – Ella fa qui da padrona di casa, poichè i miei figli hanno perduta la madre. —

      E sospirò, il re della montagna, mentre Gino salutava.

      La seconda che veniva verso di lui era più giovane di qualche anno, bruna, dall'occhio ardito, dalle labbra tumide, indizio di bontà.

      – Mia cognata Olimpia; – disse il signor Francesco. – Suo marito, mio fratello secondogenito, verrà forse più tardi. Egli è alla serra, e non c'è stato il tempo di farlo avvertire. Un altro mio fratello, il più giovane di tutti, quasi giovane come il mio Aminta, non verrà, perchè vive lontano da noi, a Sassuolo, per ragion di negozio. —

      Gino salutava i presenti, e accennava del capo agli assenti. Gli pareva strano, frattanto, che gli altri fossero presentati a lui, ed egli a nessuno. Ma lassù comandava un galateo diverso, l'antico. Nelle nostre case moderne i padroni sono altrettanti piccoli principi, a cui bisogna far riverenza; nelle vecchie, o dove gli usi son vecchi, principe è l'ospite, e a lui son rivolti gli omaggi di tutti.

      Mentre egli pensava, un'altra figura di donna apparve nella sala.

      Capitolo III.

      Tra l'Ariosto e il Tasso

      Figura di donna, ho detto, e aggiungerò di donna giovane, quantunque lo avrete già argomentato da certa disposizione di effetti, che del resto è proprio casuale, e perciò senza merito mio. Quella giovane donna veniva ultima nella sala da pranzo, perchè era l'ultima di fatti nell'ordine gerarchico della famiglia e in quella legge della precedenza, che non è solamente a Corte, ma si ficca un po' da per tutto: perfino, che vi dirò?.. perfino in un branco di pecore. Ma che importa esser gli ultimi, per certi rispetti, se per altri ed essenziali si può essere i primi? Quella figura di donna, apparsa ultima nella sala, fu facilmente, trionfalmente la prima, agli occhi del conte Gino Malatesti.

      Come, direte voi, già a questi punti? Nossignori, non c'è già che tenga. È permesso di ammirare, anche senza cadere innamorati sul colpo. E poi, queste son sottigliezze che vanno lasciate in disparte. In ogni ordine di cose c'è quel che si vede, e quel che si guarda; che ci possiamo far noi? L'ultima di casa Guerri era di quelle che si guardano.

      Vorrei descriverla; ma le descrizioni sono così poco efficaci! S'infilzano parole l'una a fianco dell'altra, si girano frasi, si rigirano periodi, si riesce a far della prosa robusta, desolazione ed abominio dei popoli. La descrizione, checchè faccia, non sarà mai la pittura. Nondimeno, anche nei passaporti c'è il desiderio di dipingere in qualche modo, e nessuno ignora che in una descrizione qual si sia, certi tocchi particolari hanno la virtù di richiamare alla mente del lettore una immagine piuttosto che un'altra. Quando, ad esempio, si dice capegli biondi, capegli rossi, vengono subito agli occhi due tipi distinti di carnagione, il bianco fino e pallido, o il bianco vivace e lentigginoso. Se vi dicono capegli castagni, la carnagione vi si offrirà subito agli occhi d'un bianco traente al bruno, non senza riflessi dorati; se vi dicono capegli neri, d'ebano, o d'ala di corvo, vedete prontamente una carnagione alabastrina e perlata. Così, per via di naturali richiami e associazioni d'idee, il povero narratore si aiuta.

      Or dunque, non per voler descrivere, e molto meno per gareggiare con la pittura, vi pregherò d'immaginare una figura di donna piuttosto alta, snella, ma dal fianco prominente, su cui si disegna con castità medievale ed incomincia ad abbozzar le sue pieghe una veste di lana colorita a larghi quadri scozzesi. La vita risale tutta chiusa fino alla radice del collo, donde esce e biancheggia una piccola gorgiera di mussolina; le maniche, strette fino ai polsi, vi fanno sentire la greca modellatura delle braccia. Nel complesso, eccovi una figura di giovane castellana, a cui non manca che la borsellina di seta, pendente da una cintura molleggiante di cuoio, per darvi l'illusione perfetta.

      Le mani son belle, e guai se non lo fossero, uscendo da quelle maniche così strette. Il volto è di contorno romano, ma con lineamenti raffinati, raddolciti dall'espressione moderna. Le sopracciglia son nere, diritte, segnate senza fiacchezza, ma altresì senza le esagerazioni del classicismo di seconda mano, e di sotto a quelle sopracciglia gli occhi grandi sfavillano nerissimi, circonfusi di una luce bianca azzurrognola. Nel naso profilato, nelle labbra di vermiglio pallido, sottili di forma e a mala pena incurvate sugli angoli, nel mento pieno e risentito, nella rotondezza eretta del collo, il moderno antropologo vedrebbe una grande fermezza di volontà, come nell'orecchio piccino e nella vivacità dello sguardo una rara delicatezza di sentimento. Ma che dire della carnagione, che è pregio essenziale nella bellezza femminile, tanto che senza di questo la medesima purità dei contorni si riduce ad un accozzamento di linee, felice sì, ma spietatamente geometrico? La dicono bianca come la neve, sì, per seguitare l'usanza; ma come la neve, quando il primo raggio di sole la tinge di rosa sulla vetta di un'Alpe. E questo, ancora, è l'effetto da lontano; per descrivere la cosa veduta da vicino bisognerebbe chiedere i paragoni alla superficie interiore di certe conchiglie orientali; donde per altro si avrebbe l'idea di una durezza vitrea, laddove sarebbe necessario rendere l'impressione del delicato, del pastoso e del morbido.

      Lettori,

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