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tratta del vecchio Lorini, dunque?

      – Sì, e com'Ella vede, signor Francesco mio, i giorni possono dirsi contati. Morbus et ipsa senectus. Ma non parliamo di cose tristi. Ho fatta la mia corsa fin sotto a Monticelli, ed ecco la cagione del ritardo.

      – È venuto almeno in tempo per fare un brindisi; – disse il signor Francesco. – Le presentiamo, caro Don Pietro, il signor conte Gino Malatesti, di Modena. Egli ha voluto dirci il suo nome, ed abbiamo saputo nel medesimo tempo che egli, per causa d'opinioni politiche, è stato mandato a confine in Querciola.

      – Brutto paese! – esclamò Don Pietro. – Perchè non alle Vaie?

      – Ma sì! – ribattè il signor Francesco. – Glielo domandi un po' Lei.

      Perchè non alle Vaie?

      – Signori miei, – rispose Gino, sospirando, – se il nostro venerato governo avesse saputo che Querciola era ad un'ora di cammino dalle Vaie, mi avrebbe mandato anche più in là. Il confine che lor signori avrebbero voluto per me, non sarebbe stato un castigo, ma un premio.

      – Non gli faremo dunque saper noi quello che ignora; – rispose il signor Francesco, ridendo. – E deve ignorarlo, sicuramente, se pensiamo al conto che fa di noi montanari. Ma c'è anche il suo lato buono, in questa sua ignoranza. Qui il governo si sente meno, ed anche ce n'è meno bisogno. Qualche strada di più sarebbe desiderata, non lo nego; qualche argine, qualche ponte, non tornerebbero inutili. Ma infine, quel che occorre a noi, bene o male, lo facciamo coi nostri denari, e, non chiedendo nulla, ci avvezziamo a non aver bisogno di nessuno. Ma ritorniamo al nostro ospite. Don Pietro, Lei è oratore; faccia un brindisi Lei, uno di quei brindisi che sono discorsi, e di cui Ella ha il segreto.

      – Perchè no? perchè no? – disse il prete, che non era insensibile alla lode.

      – Bravo! – gridarono le signore. – Ci faccia il discorso. Don Pietro! —

      Fiordispina, presso alla quale si era seduto il vecchio ministro dell'altare, gli versò il vino nel bicchiere. Don Pietro alzò il calice, osservò attraverso il cristallo la bella tinta di topazio del suo vino, lo fiutò da conoscitore provetto; poi, levatosi in piedi, parlò in questa forma:

      – Vin santo! O ben nomato, poichè mi reca una buona ispirazione! Veramente, miei signori, il brindisi, usanza pagana, disdirebbe a un sacerdote. Ma come è santo questo vino, non sono santi forse tutti i doni della terra? E non è memoria nelle Sacre Carte che delle loro primizie si facesse offerta nei luoghi eccelsi all'Altissimo? Anch'io offrirò a Dio il liquore ch'egli ha infuso nel tralcio delle nostre colline, e pregherò (si può infatti pregare da per tutto) e pregherò al vostro ospite tutte le benedizioni del cielo. Sia salva la sua casa; sia prospera la sua famiglia; siano adempiuti tutti i suoi voti.

      – Tutti? – mormorò Gino, mentre s'inchinava all'augurio.

      – Tutti, certamente! – rispose Don Pietro. – Non sono essi onesti e nobili? E può il conte Malatesti averne di altra ragione? Possiamo noi immaginare che ne abbia altri, conoscendo la cagione per cui egli è venuto pellegrino quassù? Mi confido adunque nella rettitudine dell'animo suo, ed offro i suoi voti, e domando e prego che siano esauditi da Dio, nel suo gran giorno di giustizia e di pace. Non ha egli fatto alleanza col suo popolo? Così possa esser vicino quel giorno! Così possiamo anche noi vedere il nuovo Israele posar libero e felice nelle sue sedi, da Dan fino in Betsèba!

      – Ah! – esclamò Gino, che aveva capito… l'ebraico.

      – Sì, – riprese Don Pietro, commentando la sua frase nella forma della ripetizione, – dico il nuovo Israele. Non c'è qui una immagine di popolo eletto? E non ce ne affida questo doppio raggio di gloria e di sventura che illumina la fronte della patria? E l'aver tanto sofferto non è segno di aver bene meritato da Dio? Esaudite, Signore, i voti dell'ospite! Rivolgete i vostri occhi all'Italia! —

      In quel momento, col suo calice levato, Don Pietro Toschi, parroco delle Vaie, sembrava Melchisedec, il re sacerdote, quando offriva l'olocausto all'Altissimo sovra il poggio di Salem.

      Gli astanti erano commossi; Gino Malatesti aveva le ciglia umide. Si levò tuttavia e rispose:

      – L'augurio muove da un pensiero che non mi giunge nuovo in questa nobile casa, quantunque io ci sia ospite da poche ore soltanto. Ricorderò che il signor Francesco Guerri ha cortesemente raddrizzata una mia storta opinione, dicendomi: «Se sui monti è aria libera, come sfuggirne il contatto? come evitar la politica?» Mando un saluto a quest'aria libera, dove non sono o non si conoscono tiranni, ed auguro al mio paese di liberarsi dai suoi.

      – E di non meritarne degli altri! – soggiunse Don Pietro. – Sia questa la seconda parte del voto!

      – Certamente! – rispose Gino. – Le ricadute son gravi, e noi ne abbiamo fatta una triste esperienza. Speriamo che questa abbia insegnato qualche cosa agli afflitti di quindici secoli. Ed ora, o signori, permettete che io beva alla salute vostra, alla prosperità di questa casa ospitale, che ho trovata sul mio cammino, come un'oasi benedetta in mezzo al deserto. Signor Guerri, – conchiuse Gino, volgendo il discorso al suo ospite, ma tosto mandando gli occhi in giro, fino ai suoi figli, – poichè siamo nell'oasi, Dio prosperi le vostre giovani palme. —

      Una stretta di mano, ma vigorosa, fu il discorso del re della montagna, in risposta alle parole affettuose di Gino Malatesti.

      – Ella è un amico di casa, se ne ricordi.

      – Ahimè! – disse Gino… – Che è ciò? Son sceso di grado?

      – Perchè? – domandò il re della montagna, non intendendo lì per lì l'allusione del suo ospite.

      – Perchè, signor Francesco mio, dianzi era stato adottato per figlio.

      – Ah, sì; – rispose il vecchio, sorridendo; – quando ignoravamo ancora l'esser suo e non vedevamo in lei che la sua qualità d'ospite. Ma Lei ha voluto farsi conoscere, ed ora sappiamo il suo nome e il suo titolo.

      – E per questo che Ella sa, – ribattè Gino Malatesti, – mi leva quello che mi aveva accordato? Io me ne lagno, e chiedo alla regale ospitalità delle Vaie di non mutar nulla dai suoi cominciamenti per me.

      – Sia pur come vuole! – rispose il signor Francesco. – Non è sua, la casa? Prenda il posto che le piace, al focolare domestico dei Guerri. —

      La sala era vasta, e mentre i commensali, alzatisi da tavola, stavano chiacchierando in un angolo, quattro fantesche, giovani e forti montanine, sparecchiarono in un batter d'occhio. Gino si avvide del cambiamento di scena, quando ogni cosa era fatta. Lasciato il signor Francesco a discorrere col vecchio parroco, si accostò allora a Fiordispina, e le chiese in grazia di far sentire qualche cosa sul pianoforte, se, come aveva immaginato, era lei la musicista di casa.

      La bella figlia dei monti arrossì un pochettino, ma non istette a farsi pregare, come fanno le dilettanti della pianura; non si scusò neanche con la solita ragione del non ricordare che musica vecchia, ben sapendo che la vecchia è molto spesso la buona, e andò di buon grado a sedersi davanti al suo Erard, di cui il conte Gino sollevò prontamente il coperchio. Si fece silenzio nella comitiva, quando la fanciulla dei Guerri alzò la ribalta e posò le dita sulla tastiera, traendone i primi accordi, un po' timidi, ma precisi.

      Il pianoforte è molesto nelle città, come tutte le cose delle quali si abusa. C'è un modo di far soffrire il mio amico Arnaldo Vassallo: basta suonargli la Stella confidente. Il pianoforte, strimpellato in ogni luogo e a tutte le ore del giorno, è una vera afflizione dell'umanità, e non si capisce come Mosè, che era profeta e poteva prevederlo, non lo abbia fatto figurare tra le piaghe d'Egitto. Ma questo istrumento, che è di tortura in città, può riescir di piacere in montibus altis, dove manca ogni musica, anche quella dei grilli, e dove infine, a mente fresca e serena, osservando le cose di questo mondo da una sommità ragguardevole, sareste capace di riconciliarvi col peggiore dei vostri nemici.

      E le campane, del resto? Non succede lo stesso con le campane? Questo sacro ma uggioso bronzo, che co' suoi

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