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festa; è giocondo, poi, è divino sulla vetta di un'Alpe, dove il suono vi giunge affievolito, ma sempre argentino all'orecchio, senza che pur vediate la chiesa e il campanile, perduti nella nebbia luminosa della valle sottoposta.

      Ritornando al pianoforte, non sarà mai considerato nemico un istrumento come quello, se ne traggono suoni le dita di una bella ragazza. Il pensiero melodico sarà di Chopin, o di Mendelssohn; ma esso è passato nella mente di lei, dove vorreste regnar voi; ha vibrato per tutti i suoi nervi, prima di tradursi in quella pioggia di note.

      Gino Malatesti, seduto accanto al piano, guardava. Guardava lei, si capisce, e ad un certo punto la fanciulla se ne avvide, si confuse, perdette il filo, e fece, come si dice volgarmente, un pasticcio.

      – Ebbene, signorina? – diss'egli, vedendo che la suonatrice rimaneva in tronco.

      – Ah, non so più! – mormorò Fiordispina. – Non sono avvezza…

      – No, continui, la prego! —

      E c'era tanto arder di preghiera in quelle poche parole, che Fiordispina ripigliò la suonata, andando fino alle ultime note senza fermarsi.

      Poi venne Don Pietro, che volle un motivo del Verdi, il coro famoso dei Lombardi, e poi l'altro, non meno famoso, del Nabucco. Voi già capite dove s'andasse a finire: con gli inni del Quarantotto. Don Pietro Toschi era un quarantottista travestito.

      Ora paiono cose dell'altro mondo; ma allora, nel periodo acuto dei dolori italiani, era così, come io vi racconto. Tutti li avevano in mente, gli inni del riscatto, e li canticchiavano tutti tra i denti. Anche quando si diceva male del Quarantotto, de' suoi canti, delle sue piume, delle sue coccarde e dei suoi discorsi in piazza, era facile sentire nell'amaro della critica il dolce dell'amore profondo, indimenticabile, eterno. Infine, si erano commessi errori su errori, ma si era vissuti, si era allargato il cuore alle divine speranze, e tutti i ceti, tutti gli uffici sociali, si erano fusi in quel sacro entusiasmo. Anche Don Pietro Toschi, si era riscaldato il cervello; aveva veduto molti giovani passare da Fiumalbo, per correre alla Guerra Santa, e aveva gridato: «bravi! che Iddio vi benedica!» Poi erano venute le disgrazie; ma la reazione, che aveva dilagato al piano, non si era potuta spingere fino a quei monti, dove i cuori erano uniti e le labbra chiuse. Qualche commissario, capitato lassù, era stato affogato nel lambrusco dell'ospitalità. – «Brava gente! – aveva dovuto riferire ai superiori. – Pensano ai fatti loro, amano il vin buono, e lo fanno bere agli amici.»

      Così la tirannide si spegneva, o rimetteva della sua ferocia in quegli alpestri confini. Il monte Cimone non conosceva impiegati ducali, e i suoi echi potevano liberamente ripetere le note degli inni patriottici. Il conte Gino gustò molto quella musica. Conosceva quegli inni, uditi da giovinetto; sentì che erano ricordati in onor suo, e non si dolse davvero di una disgrazia che gli meritava quella dimostrazione di stima affettuosa. Gran serata, che egli non si aspettava certamente nel mattino, muovendo da Pievepelago! Il nostro giovanotto aveva il cuore pieno, riboccante di affetto, di poesia e di gloria.

      Quella notte, nel letto ospitale dei Guerri, il conte Gino Malatesti sognò grandi cose. Il duca di Modena era fuggito; la sua città natale era libera, e giurava una lega con tutte le altre città italiane. Egli poi, montato a cavallo, inseguiva il tiranno, fuggente come Serse a Salamina, o come il Barbarossa a Legnano. Il conte Gino non era solo; molti venivano con lui, tra gli altri suo fratello Aminta. E al fianco gli galoppava Minerva galeata; ma l'elmo della Dea somigliava molto ad uno di seta, che il conte Gino aveva ammirato il giorno prima alle Vaie.

      Capitolo IV.

      La vita alle Vaie

      Venne il mattino, tiepido e fragrante mattino, uno di quelli che fanno così grato il muoversi, quando non si sta bene in un luogo, o si spera di trovar meglio, ma che per contro fanno così dolce il restare dove il soggiorno è piacevole. E il conte Gino Malatesti doveva andare a Querciola. Era l'obbligo suo, e lo aveva accennato ai signori Guerri, prima di ritirarsi nella camera ospitale.

      Perciò, all'alba del giorno seguente, erano già pronti due cavalli nel cortile: i due cavalli che Gino conosceva, il suo del giorno avanti e quello del signor Aminta, o, se piace meglio a voi, come piaceva al conte Malatesti, di suo fratello Aminta.

      Il signor Francesco, alzato anch'egli per tempo, diede il buon viaggio al suo ospite. Ed anche il felice ritorno, come potrete immaginare, poichè queste cose si dicono sempre. Le signore non si erano presentate nel salotto, ma il conte Gino, come fu in sella, ebbe il piacere di vederle apparire sopra un terrazzo scoperto, a fianco della casa, e di mandar loro un rispettoso saluto. Tra esse, naturalmente, e quasi sarebbe inutile il dirlo, era anche Minerva galeata.

      I nostri due cavalieri, fatta una breve salita, andarono costeggiando la montagna per un sentiero sassoso, all'ombra dei soliti cerri; guadarono due o tre torrentelli, e dopo mezz'ora di cammino scopersero le prime case di Querciola.

      Veramente, il nostro Gino Malatesti non aveva scoperto nulla. Querciola aveva i tetti di legno o di falde di pietra; e falde e tavole, essendo tutte coperte di musco, si confondevano facilmente col verde grigio della costiera. La scoperse Aminta e la indicò al suo compagno di viaggio, che la distinse a sua volta ed intese non trattarsi d'altro che d'una doppia fila di casipole, mezzo nascoste in una piega del monte.

      – Quella, – disse Aminta, – è Querciola sottana, e ci arriveremo in un quarto d'ora.

      – Come'? – esclamò Gino. – C'è ancora una Querciola soprana?

      – Sì, un quarto d'ora di cammino più su, dietro quella macchia di roveri.

      – In verità, – disse Gino, ridendo, – non avrei creduto necessario che ci fossero due Querciole. Una bastava, se non era d'avanzo.

      – E dobbiamo andare a quell'altra, – rispose Aminta, – se Ella vuol trovare un alloggio meno orribile degli altri, nella casa dei Paoli.

      – Che! Non occorre; – disse Gino. – Orribile più, orribile meno, sceglierò il più vicino.

      – Ma badi! – osservò Aminta. – L'orribile più sarà orribile troppo.

      – Ebbene, – replicò Gino, – che importa? Sia pure il peggio dei peggi. Non debbo io anche interpetrare degnamente le intenzioni del governo ducale? Mi vuol confinato a Querciola, in punizione de' miei peccati; sarà edificato di sapermi ad alloggio nella Querciola peggiore. Anzi, se non le dispiace, Aminta, la chiameremo sempre così: Querciola peggiore, per non far onta ad un grazioso indumento di cui la Querciola sottana è ben lungi dal ricordare la bianchezza. —

      Si rise, a quella trovata, e l'allegria fece parere meno lunga la salita. Quindici minuti dopo, come aveva detto il signor Aminta, i cavalli giungevano trottando davanti alle prime case di Querciola peggiore.

      Il giovane Guerri conosceva tutti i capi di famiglia delle due Querciole e non gli era difficile di trovare un alloggio per il conte Malatesti, poichè tutti erano cattivi ad un modo, e non sarebbe stato neanche il caso di scegliere. Si fermò pertanto alla prima del villaggio, con grande soddisfazione del suo compagno, il quale promise a se stesso che per sua propria elezione non avrebbe mai fatta la traversata del paese. E questo si capisce benissimo, non essendo bisogno di traversare Querciola, per uno che volesse andare alle Vaie.

      La casa Mandelli, poichè questo era il suo nome, poteva chiamarsi egualmente una catapecchia. Buono, per chi doveva abitarci, che la scala era di fuori, tutta a lume di sole, poichè altrimenti non si sarebbero veduti gli scalini, così rotti e sconnessi com'erano, e uno meno pratico avrebbe potuto fiaccarcisi il collo. Gli usci sgangherati, l'impiantito logoro, le mura con certe crepe lunghe fino al tetto, raffidavano poco, facevano pensare che la vita dell'uomo è sospesa pur troppo ad un filo. Pure, vedete, tanta è l'abitudine di star lì, quelle case si tengon ritte. È vero altresì che quando cascano, son mucchi di rottami, tra cui cerchereste inutilmente, tra legno o pietra, due palmi di buono.

      Casa Mandelli poteva appigionare una camera. C'era un letto, in quella camera, e largo abbastanza; ma Gino Malatesti fremette involontariamente, guardandolo. Ci sono dei letti terribili, anche senza pensare al romanzo inglese che da uno di questi s'intitola; letti assassini, dove si appiatta una banda sitibonda e famelica, banda

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