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senza consultare l'intenzione dei sudditi.

      – Io, per altro, – soggiunse Gino, come ultimo atto di protesta, – debbo andare a Querciola.

      – Che ci vuol fare, a Querciola? – disse il mugnaio, crollando le spalle. – È un paesaccio.

      – Sia quel che gli pare; debbo andarci e ci andrò; – rispose Gino. – Mettete che io abbia da farci degli studi.

      – In questo caso potrà sempre inerpicarsi lassù ed arrivarci in un'ora di cammino. Ma, come abitazione, si troverà meglio dai Guerri.

      – Dai Guerri? Chi sono i Guerri?

      – Gliel ho detto poc'anzi: la famiglia del…

      – Ah sì, lo ricordo ora, del signor Aminta. Ed anche non ricordandolo, dovevo immaginarmelo.

      – Hanno un alloggio molto comodo; – rispose il mugnaio.

      – Lo capisco; – disse Gino. – Sarà una reggia, se i padroni sono i re della montagna. E voi mi dite che in un'ora si può andare a Querciola?

      – Dalle Vaie, sicuro.

      – Le Vaie! Che cosa sono le Vaie?

      – Il luogo di abitazione dei…

      – Basta, ho capito anche questo; – interruppe Gino, ridendo. – Caro amico, vi ringrazio delle vostre informazioni, che finiscono tutte ad un modo, come i salmi. Non mi resta ora che di pagarvi il conto.

      – Perdoni, signor mio; – disse il mugnaio, schermendosi.

      – Come? Non si usa pagare il conto, alla vostra osteria?

      – Si usa, sì; ma in questo caso… Ella non ha mangiato che una cattiva minestra… E poi, il signor Aminta non permetterebbe.

      – Ah, per tutti i… re della montagna, ed anche della pianura, questa è grossa davvero. E se io volessi darvi uno scudo…

      – Quando Vossignoria lo volesse ad ogni costo… – rispose l'altro, facendo bocca da ridere.

      – Ah, finalmente! – gridò Gino, mettendo mano alla borsa. – Ne vinco una io, sul vostro signor Aminta. —

      Pagato a quel modo lo scotto, il conte Gino escì dall'osteria, per avviarsi sulla strada che avevano già presa le sue valigie. Quasi sarebbe inutile il dire che lo guidava il mugnaio, poichè egli, ignaro affatto dei luoghi, non avrebbe saputo da qual parte voltarsi.

      Passarono sopra un ponte di legno il ruscello che forniva l'acqua al mulino, e di là presero a salire un sentiero largo e sassoso in mezzo ad una boscaglia di cerri, rada nei tronchi, che apparivano grossi e diritti, ma folta in alto, per la diffusione dei rami.

      I cerri sono le quercie delle alte convalli, dove il freddo regna più a lungo. Robusti e previdenti, hanno la corteccia più fitta, e le loro ghiande portano il cappuccio lanoso.

      Il conte Gino aveva fatto appena un cento metri di strada, quando attraverso i radi tronchi dei cerri vide discendere dall'erta uomini e cavalli.

      – To'! – diss'egli. – Una cavalcata. Com'è pittoresca!

      – È il signor Aminta che ci viene incontro; – rispose il mugnaio.

      – Sempre Aminta! – gridò il conte Gino. – Caro mio, Torquato Tasso dovrà esservi molto riconoscente.

      – Chi è questo signore? – domandò candidamente il mugnaio.

      – Il padre di Aminta; – rispose Gino.

      – Scusi, – replicò quell'altro, sicuro del fatto suo, – il padre del signor Aminta si chiama Francesco. —

      Gino diede in una matta risata, e il mugnaio pensò ch'egli fosse matto davvero, volendo sbattezzare il signor Francesco Guerri, per chiamarlo Torquato. Ma rise anche lui, vedendo ridere il suo compagno di viaggio.

      Il nostro giovanotto era di buon umore, e la cosa vi parrà singolare, in mezzo a tanti dolori che lo avevano accompagnato sulla via dell'esilio. Ma io già ve l'ho detto, Gino Malatesti aveva ventisei anni. Aggiungete la novità del caso, che lo faceva ospite per forza di gente che non lo conosceva affatto, e che egli conosceva anche meno. E poi, non dimenticate la bella natura, questa regina sempre giovane e lieta, che fa anch'essa ogni cosa a suo modo, e che, dentro la cerchia del suo regno, per un giorno almeno, ha potestà di giocondare gli spiriti.

      La cavalcata intravveduta da Gino si componeva di due soli cavalli. Sul primo torreggiava il signor Aminta; l'altro era condotto a mano da un famiglio.

      Come fu a venti passi da Gino, il signor Aminta balzò leggero di sella e gli mosse incontro a piedi.

      – Perdoni la libertà grande; – gli disse, scoprendosi. – Gasparino le avrà già detto…

      – Sì, mi ha detto molto; – rispose Gino. – Ma io non so veramente con qual diritto dovrei dare tanto incomodo a Lei… ignoto come sono…

      – È un viaggiatore: è un ospite; – replicò l'altro, con bella semplicità di parole.

      – E non sa ancora il mio nome; – soggiunse Gino, disponendosi a fare la sua presentazione da sè.

      – Avrà tempo a dirlo, se vorrà; – disse Aminta. – Gasparino mi aveva accennato che Ella si reca a Querciola, per passarci alcuni giorni.

      – Che potrebbero esser mesi; – replicò Gino.

      – In quel luogo! – esclamò l'altro. – Ma ci sarà da morire d'inedia.

      – Necessità, signor mio! – rispose Gino, stringendosi nelle spalle.

      – Rispettiamo la necessità; – disse Aminta, inchinandosi. – Ma non c'è posto per Lei, a Querciola. È un paese di caprai, e non ci son famiglie, ch'io sappia, le quali possano offrirle una ospitalità pur che sia.

      – Pure, debbo andarci; sono costretto! – disse Gino, sospirando.

      – Ci andrà domani, doman l'altro, quando le piacerà; – rispose il signor Aminta. – Per ora si degni di smontare da noi.

      – Non abuserò della sua gentilezza?

      – Che dice Ella mai? La nostra casa sarà onorata della sua presenza. Del resto, – soggiunse quel principe ereditario, – che ci staremmo a far noi in queste alte solitudini, se, quando ci arriva un forastiero, non lo accogliessimo a festa? Aggiunga, signor mio, che altrove starebbe peggio che da noi. La vita è dura, tra questi monti, in mezzo ad una gente buona e leale, ma rozza…

      – Non mi pare, non mi pare; – interruppe Gino. – Si fermi almeno alle buone qualità, se non vuole aggiungerne delle altre. —

      Il signor Aminta ringraziò col gesto, e additò al forastiero il cavallo che era stato condotto per lui. Anzi, per colmo di gentilezza, volle mettersi egli stesso dall'altra parte, per offrirgli le redini.

      Gino non aveva bisogno d'aiuti, e lo dimostrò subito, balzando in sella con una grazia di cavaliere perfetto. Nella perfezione del cavaliere c'entrano anche, lo immaginate, i ventisei anni di cui lo ha privilegiato il suo atto di nascita.

      Il cavallo di Gino Malatesti era un bel rovano, di larga cervice e di garretti robusti, con due occhioni intelligenti e gli orecchi tesi, che indicavano una serietà di nobile animale, non ignaro della importanza degli uffici a cui è destinato. Gino gli palpò amorevolmente il collo, e n'ebbe in risposta un nitrito di soddisfazione.

      – Strano! – diss'egli. – Non mi aspettavo di trovar cavalli, in queste balze.

      – Cavalli di montagna, signor mio; – rispose Aminta. – Sono addestrati a correre per i greppi, e son saldi di passo come le mule. —

      Aminta era montato in sella anche lui, e andava primo, per insegnare la strada. Così salirono l'erta del monte, e di là dalla boscaglia dei cerri il conte Gino vide una piccola valle, con un'altra costiera, vestita da un'altra boscaglia. Ma lassù, dalle vette dei faggi e delle quercie, appariva

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