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Читать онлайн.Chi gli diceva di no? Chi mai gli bisbigliava nel cuore che certe cose è più facile immaginarle che farle? Sicuramente un genio maligno, uno spirito noioso, che vive dentro di noi e fa la critica di tutti i nostri pensieri. Dovrebb'essere il diavolo della logica: un diavolo arguto, dopo tutto, e non cattivo come sembra; ma riesce ordinariamente antipatico, perchè contraddice volentieri e ci mette alla disperazione con le sue ironie sanguinose.
Ah sì, spirito malnato? Credi proprio che sia tanto difficile il fare una cosa, quando si vuole davvero? Aspetta un pochino anche tu, e vedrai come ci si riesca.
Davanti a quel fermo proposito, il genio maligno taceva, quasi umiliato, e ritirava le corna. Gino, frattanto, inforcava il cavallo, per ritornare alle Vaie.
Ci andò per due giorni ancora, abbastanza contento di se medesimo. Oramai, forte della sua risoluzione, il nostro giovinotto poteva credersi agguerrito al pericolo. Parlava liberamente con Fiordispina, non cercando mai, ma neanche sfuggendo l'occasione di trovarsi solo con lei. Più volentieri restava in conversazione con la famiglia riunita, e allora faceva pompa di tutto quello che sapeva, ragionando con garbo, girando le frasi con arte, dando alle parole tutte le più dolci inflessioni di voce. Non è forse lecito, questo? Non è anzi un dovere, quando vogliamo farci ascoltare senza troppa noia da un numeroso uditorio? Cercar di piacere alla gente non fu mai un delitto; è anzi una bella cosa, quando è l'unica che possiamo fare, a ricambio di tante gentili attenzioni che ha la gente sullodata per noi.
La sua presenza era molto gradita, nella casa dei Guerri. Anche i re conoscono la noia, e un discorritore ameno, che parli gravemente di mode e gaiamente di cose scientifiche, buon dilettante per ragionare senza sussiego di arte e di lettere, diplomatico raffinato per toccare, senza scoprirli, i segreti dei gabinetti, e per dipingere con un rapidissimo tocco i piccoli difetti dei sovrani esteri, che sono fratelli e cugini del padrone di casa, è veramente la man di Dio in un circolo intimo, donde il cerimoniale è per due ore sbandito. Per i re della montagna, il conte Gino era come una gaia nota di sole nel fosco della macchia; la sua presenza una bella meteora, la sua conversazione un fuoco d'artifizio. Anch'essi, tanto buoni e ricchi di quella gentilezza che non s'impara lì per lì, ma che è il frutto di una lunga educazione, fors'anco eredità di famiglia, anch'essi, dico, si facevano più amabili al contatto dell'ospite, fresco degli usi e delle garbatezze cittadine, brillavano anch'essi di quella vernice, che, a dirvi la cosa molto volgarmente, tutti i corpi son capaci di prendere per sola virtù di strofinamento. Ed avveniva allora nella casa dei Guerri ciò che spesso accade in una brigata di persone civili, quando, per opera non avvertita di uno, che abbia garbo e misura, tutti si accorgono con meraviglia di avere avuto più spirito. – Come è passato il tempo! si dice. E siamo proprio noi, che ci siamo divertiti così? —
Vi ho detto che Gino fu ancora per due giorni alle Vaie, con molta sicurezza di sè. Ci era andato il terzo giorno; ma la sua tranquillità era stata turbata sul più bello. Si stava appunto per prendere il caffè, quando vennero a chiamare il signor Aminta, che andò subito fuori, e ritornò dopo cinque minuti.
– Sai? – diss'egli a Gino. – Ci sono due signori a Pievepelago.
– Ah! – esclamò Gino, turbato. – Cercano forse di me?
– Lo credo, perchè hanno domandato la via di Querciola. L'uomo che è venuto ad avvertirmi in fretta mi dice che all'aria gli sembrano due impiegati del governo ducale.
– Due commissarii! Troppo onore; – borbottò Gino. – E come ne sei stato avvertito?
– Prevedevo la visita, – rispose Aminta, – ed ho stabilito il mio servizio di esplorazione.
– Grazie, mio buon amico e fratello! Ed ora, potranno esser qua da un momento all'altro.
– No, perchè si erano messi a tavola, quando il mio esploratore montava a cavallo. Del resto, puoi riceverli qui.
– Che! Non mi conviene davvero.
– E perchè? – domandò il signor Francesco. – Ella è in casa sua.
– Appunto per questo che a Lei piace di dire; – rispose Gino, ridendo. – I satelliti del tiranno vedrebbero che sto troppo bene, fra queste montagne. Cattivi come le scimmie, mi farebbero subito un brutto servizio presso l'autorità superiore, e questa, con un suo nuovo rescritto, mi manderebbe Dio sa dove.
– Allora scappi subito! – dissero le signore.
Aminta corse nella scuderia, a far sellare il cavallo di Gino. Per quel giorno, intanto, addio conversazione!
– Ci porti notizie, quando saranno ripartiti; – disse il signor Francesco, stringendo la mano al suo ospite.
– Oh, sicuramente; non dubiti. Signore mie, compiangano un povero condannato, che deve obbedire al precetto. —
Cinque minuti dopo, era a cavallo, e Aminta lo accompagnò fin sulla strada.
– Non correre tanto; – gli disse. – Per venire a Querciola debbano passare di qua. Se anche hanno trovato muli a Pievepelago, non c'è pericolo che vengano al trotto. Comunque, noi non offriremo loro i cavalli per raggiungerti. Quando ci rivedremo?
– Se mi lasciano, – disse Gino, – fo una trottata stasera.
– Bravo! Ti hanno guastata la fine del pranzo; vieni a cena.
– Eh! Perchè no? A rivederci. Se non posso liberarmi, ti mando Pellegrino con le mie notizie. —
Pellegrino era il famiglio dei Guerri, collocato da questi al servizio di Gino Malatesti.
Il nostro confinato era già da due ore nel suo eremo di Querciola, e incominciava a credere che quello di Pievepelago fosse stato un falso allarme, quando sentì un batter di ferri sul selciato della strada.
– Ah, ah, ci siamo! – disse Gino tra sè. – Ed hanno anche trovate le cavalcature, quei manigoldi! —
Lo scalpitìo, frattanto era cessato, perchè i cavalli, o muli che fossero, avevano raggiunto il colmo della salita, davanti alle prime case di Querciola. Non andò molto che Gino sentì un rumore di passi su per le scale.
Il vecchio Mandelli precedeva i forastieri. Affacciatosi all'uscio della camera, che Gino aveva lasciato socchiuso, disse al suo inquilino:
– Signor conte, son qua due signori che cercano di Lei.
– Entrino pure; – rispose Gino, smettendo di leggere, ma lasciando aperto sulla scrivania il Dizionario storico geografico dello Stato di Modena.
Il vecchio Mandelli si ritirò, e in sua vece si presentarono le due facce proibite che avevano guastata la digestione del conte Gino, facendolo correre con tanta fretta dalle Vaie a Querciola. Dico facce proibite per far piacere al nostro eroe; ma nel fatto erano due facce insignificanti; completamente rase, perchè a que' tempi non si amavano le barbe, e i pizzi e i mustacchi erano proibiti come le pistole corte, anzi come le pistole d'ogni misura e le armi d'ogni genere. I due possessori di quelle facce erano vestiti di nero, e i loro atti apparivano molto cerimoniosi, ma non senza quel po' di sussiego che ha sempre indicata la dignità di un ufficio governativo. Dal contegno dell'uno rispetto all'altro, dalla distanza che il secondo mantenne venendo dietro al primo, si capiva facilmente che quegli era inferiore di parecchi gradi al suo compagno di viaggio.
– Ella