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già ottenuto il permesso e combinato ogni cosa. Si aspetta un tenore, con un baritono e alcune seconde parti, mandato a cercare in fretta a Milano. Quanto al basso, c'è l'Orlandi, nostro modenese anche lui, che fortunatamente era a casa, in attesa di scrittura. Ah, saranno quattro serate magnifiche, quattro serate deliziose!

      – Ella ama molto la musica, signor commissario?

      – Dica che ne vado pazzo, signor conte. Che si fa celia? Un po' di buona musica, è il maggiore dei conforti.

      – Sarà dilettante, m'immagino; suonerà qualche istrumento.

      – Nelle ore d'ozio, e piuttosto male, il violoncello; – rispose il commissario, con l'atto e l'accento di finta umiltà, per cui vanno distinti i virtuosi seguaci d'Euterpe… e d'altre Muse parecchie.

      – Ottimamente! – disse Gino, salutando.

      E sorrise, pensando alla bella figura che doveva fare il signor commissario, con quell'enorme violino ritto tra le ginocchia. Ma sorrise per poco, ritornandogli a mente la signora marchesa Polissena, che pensava a metter su spettacoli teatrali, e proprio in quel giorno che egli correva da Modena a Pavullo, per recarsi al suo luogo di esilio. Ahimè! Così va il mondo. Anche quel povero Ovidio, cavaliere e poeta, veleggiava tristamente verso l'Eusino, e frattanto le belle dame romane, amate e cantate da lui, andavano allegramente a teatro, non cercando più l'elegante profilo del poeta nella precinzione dell'ordine equestre.

      – Beati loro che si danno bel tempo! – soggiunse Gino, dissimulando l'amarezza del ricordo particolare sotto quella espressione di rimpianto generico.

      – Che vuole, signor conte? Si fa il possibile per tener lontana la noia. Il paese è tranquillo e contento e speriamo che le cose vadano di bene in meglio. Quando il raccolto è buono e la gente ha lavoro, che desiderare di più, se non qualche ora di svago intelligente, nel culto delle arti belle?

      – Ha ragione; – disse Gino. – E tutto sia per il meglio, nel migliore dei mondi possibili. —

      Così dicendo, si alzò per davvero, volendo farla finita. Il nostro giovinotto non ne poteva più; aveva un diavolo per occhio.

      – Mi duole, signor commissario, – riprese, – di non aver nulla da offrirle.

      – Oh, non s'incomodi; abbiamo desinato a Pievepelago.

      – Ma neanche un bicchier di vino che meriti questo nome. Il raccolto dell'altr'anno dev'essere stato scarso, perchè qui non han nulla di nulla.

      – A proposito: e che mangia?

      – Vivono le galline, fortunatamente; – rispose Gino. – Ova sode, ova a bere, ova fritte, ova in tegame; questo è il fondamento del pranzo. Vien poi qualche vecchio gallo, che sacrifico ad Esculapio, per ottenere un po' di brodo.

      – Via! – esclamò il commissario. – Osservo con soddisfazione che non le manca il buon'umore: segno che sa adattarsi alle circostanze. Lo dirò, se permette, a Sua Eccellenza.

      – Dica pure, dica pure; – rispose Gino; – aggiunga, per altro, che non mi lagnerò, se mi richiamano a casa.

      – Capisco, ed anche in tempo utile per assistere ad una rappresentazione della Sonnambula; non è vero, signor conte? Questo mi par difficile, non glielo nascondo; ma creda pure che dal canto mio gliel auguro di tutto cuore. La mia servitù! —

      Gino stese la mano al signor commissario. E non tanto per lui, che gl'importava pochino, quanto per aver argomento a stringer poi quella dell'applicato, personaggio muto, ma più amico dei fatti che non delle parole, come abbiamo veduto testè.

      Quando finalmente fu solo, diede una rifiatata di contentezza; maravigliandosi, per altro, di aver saputo dire tante bugie. Ma è la necessità che fa l'uomo industrioso, e con quelle bugie così naturalmente infilate, il nostro giovanotto aveva custodito il segreto dei piccoli vantaggi materiali e morali che si era procacciati nel suo luogo d'esilio.

      Udito il batter dei ferri sul ciottolato della strada, discese per chiamar Pellegrino.

      – Ho bisogno di sapere se i due che sono partiti si fermano alle Vaie.

      Dovrei ritornarci io, e non mi piacerebbe d'incontrarli laggiù.

      – Vado a vedere; – disse Pellegrino.

      – Ma senza farti scorgere!

      – Non dubiti; conosco tutti i sentieri, e non ho neanche da seguirli fin là. In un quarto d'ora sono alla Pietra Aguzza, donde si vede netta la strada delle Vaie e il portone della casa Guerri.

      – Ottimo osservatorio! – disse Gino. – Va dunque, e ritorna appena vedrai quei signori avviati a Fiumalbo. —

      Pellegrino escì sulla strada, e il conte ritornò nella sua camera, sorridendo ai mobili che avevano destata la maraviglia del signor commissario.

      – Miei buoni amici delle Vaie! – diss'egli in cuor suo. – Vi ho fatti passare per gente che dà la roba a pigione. Scusatemi! Lì per lì non sapevo che altro inventare, e mi sembra già molto di aver trovata questa gretola, per cavarmi d'impiccio. —

      In fondo, poi, non gli era capitato a Querciola il peggiore dei commissarii possibili. Un altro arnese della sospettosa polizia ducale avrebbe potuto spingere più avanti le indagini: voler vedere tutta la casa, per esempio, scoprire nella stalla un bel baio ancora sellato e domandare dove mai il conte Gino avesse preso in affitto quel generoso cornipede. Per fortuna sua, il signor commissario non era stato troppo curioso; era anche un dilettante di musica, un suonatore di violoncello a ore avanzate, e i cultori delle arti hanno sempre un lato buono, moralmente parlando, anche se quel lato è artisticamente il cattivo. Ma forse, a proposito di musica, si poteva sospettare che il signor commissario fosse stato un pochino malizioso. Con troppa compiacenza aveva data la sua notizia teatrale! E non era da supporre che conoscesse le relazioni del conte Gino Malatesti con la marchesa Polissena Baldovini? Forse no, e il caso ci aveva avuta la parte sua, come in tante cose di questo mondo. La città, veramente, non era grande, ed anche un semplice commissario di polizia poteva aver conosciuto quel segreto galante del confinato di Querciola; ma in casa Baldovini ci andava Gino come ci andavano cento, a dir poco, dei più ragguardevoli cittadini di Modena, e in questo caso il numero dei frequentatori era piuttosto fatto per confondere lo spirito di un osservatore, che non per guidarlo nelle sue ricerche indiscrete. Finalmente se la marchesa Polissena si era presa in quei giorni tanta cura per quattro rappresentazioni straordinarie, se a lei si doveva che la celebre Venturoli si disponesse a cantare, a deliziare i suoi concittadini con le immortali melodie della Sonnambula e della Lucia di Lamermoor, niente era più naturale del dirlo, quando il discorritore era un dilettante di musica.

      Ahi, Polissena! E questo doveva udire dei fatti vostri il povero confinato di Querciola? Doveva egli vedersi dimenticato, trascurato a tal segno? Certamente egli non si aspettava di sapere che aveste preso il lutto, o che vi foste confinata in villa, inconsolabile come Calipso per la partenza di Ulisse. Simili prove di affetto e di dolore veemente si lasciano alle Immortali, che possono far ciò che vogliono, senza badare a rispetti umani, e mandando a quel paese la piccola diplomazia di società. Ma se la marchesa Polissena voleva dissimulare, conveniamone col conte Gino, ella poteva appigliarsi ad un pretesto più ovvio, ad uno espediente meno chiassoso, che non fosse quello di promuovere una stagione teatrale a primavera inoltrata.

      – Leggiamo la lettera! – disse Gino, dopo aver fatte, in due o tre o giri per la sua camera, tutte queste considerazioni melanconiche. – E vediamo chi l'ha scritta. Forse è Polissena, che ha trovato il modo di mandarmi una parola di conforto. —

      Cavò di tasca il foglio, che era suggellato, ma non portava soprascritta. Lo aperse, e vide subito che quello della lettera non era il carattere di Polissena, bensì di Giuseppe, del servitore che lo aveva accompagnato a Paullo.

      Ah, bene! Il suo Carbonaro! E come era venuto a capo di mandargli la sua lettera, proprio per le mani di un impiegato di polizia? Gino Malatesti era giovane; viveva, anche da liberale in un modo tutto suo, e non conosceva i particolari andamenti delle società segrete, che correvano allora per sottilissime fila tutte le città e borgate della penisola italiana. Tra i loro accorgimenti

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